Perseverare è umano?
Allenare la perseveranza: una sfida contro le insidie del tutto e subito
Il 12 giugno del 2005 Steve Jobs pronunciava il suo famoso discorso davanti ai laureandi dell’Università di Stanford, concludendo con la nota call to action “Stay hungry, stay foolish”. Ritengo che una delle parti più potenti e suggestive di quel discorso sia quella relativa alla metafora dell’unire i puntini. Jobs narrava di essersi iscritto a un’università prestigiosa e costosa come Stanford solo per compiacere i genitori, ma dopo i primi sei mesi non riusciva a coglierne l’utilità. Decise quindi di smettere di seguire il piano di studi prestabilito, scegliendo soltanto i corsi che lo attraevano maggiormente. Tra questi, lo incuriosì uno sulla calligrafia, in cui imparò a distinguere i diversi tipi di carattere, capendo come ottenere risultati grafici interessanti ed eleganti. Era un mix di bellezza, storia e arte, che in apparenza non avrebbe avuto alcun riscontro pratico nella sua vita. Ma dieci anni più tardi, quando si trovò a progettare il primo Macintosh, tutto ciò che aveva appreso in quel corso gli tornò utile. Ovviamente sarebbe stato impossibile unire i puntini guardando al futuro, quando ancora frequentava l’università. Lo scenario risultò invece molto più chiaro anni dopo, volgendo lo sguardo al passato. Steve Jobs con questa metafora ha sottolineato l’importanza di perseverare, proseguendo con tenacia, decisione e costanza, fiduciosi che i puntini prima o poi, nel futuro, potranno connettersi. Fu lo stesso fondatore di Apple a sostenere che “circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo è la pura perseveranza”.
Un marshmallow subito, oppure due più tardi?
Oggi viviamo nell’epoca del tutto e subito imperante. La tecnologia cui affidiamo le nostre esistenze ci offre praticamente tutto in maniera rapida, a portata di click. Ci stiamo abituando all’idea che si possa ottenere qualsiasi cosa nel momento stesso in cui se ne manifesta il bisogno o il desiderio. Si tratta del fenomeno della gratificazione istantanea, che coinvolge ormai tutti noi, ma in particolare i nativi digitali, gli appartenenti alla Generazione Z (coloro nati dal 1996 in poi), i quali per ovvie ragioni non possono fare un confronto con quanto c’era prima, non avendolo vissuto. Se la perseveranza è inestricabilmente connessa all’idea di continuare a impegnarsi in qualche attività, nonostante i risultati non siano immediatamente visibili, la gratificazione istantanea si pone esattamente al polo opposto: essa ci porta a ottenere ciò che è oggetto di un nostro desiderio, senza dover attendere.
Su questa tematica uno degli studi più illuminanti nella storia della psicologia risale al 1972, quando Walter Mischel, docente dell’Università di Stanford, sottopose un gruppo di 50 bambini in età prescolare a un esperimento. Ogni bambino entrava da solo in una stanza con una sedia e un tavolo su cui si trovava un vassoio contenente un marshmallow, per poi essere messo di fronte a una scelta: poteva avere subito un dolcetto, oppure averne due se fosse stato disposto ad aspettare quindici minuti. Il ricercatore usciva dalla stanza, e scaduto il tempo vi rientrava. Alcuni bambini non resistevano alla tentazione, mangiando subito il marshmallow. Alcuni resistevano soltanto pochi minuti. Solo il 30% dei bimbi mostrò la capacità di resistere per tutti i quindici minuti. Mischel e il suo team di ricercatori seguirono i soggetti dell’esperimento per gli anni e i decenni successivi, analizzandone i percorsi scolastici e lavorativi. Giunsero così a dimostrare come vi fosse una correlazione tra la posticipazione della gratificazione e il raggiungimento di risultati scolastici e professionali più elevati. Nello studio di follow up del 2011, quando ormai quei bambini avevano raggiunto la mezza età, venne rilevato che i partecipanti che avevano deciso di mangiare subito il marshmallow avevano sviluppato minori capacità di autocontrollo.
La perseveranza è nel nostro cervello
Perseverare nel raggiungimento di obiettivi importanti e sfidanti, manifestando autocontrollo e tenacia, è qualcosa che rivela significative differenze individuali. Se è vero che qualcuno esercita la perseveranza e qualcun altro no, è altrettanto vero che ognuno di noi è nella facoltà di poterlo fare. La perseveranza è praticamente insita nel nostro cervello, in particolare nella corteccia prefrontale, che per gran parte dell’evoluzione umana ha controllato soprattutto i movimenti corporei. Successivamente, con lo sviluppo degli esseri umani, essa si è ingrandita, connettendosi con altre aree del cervello. Robert Sapolsky, neurobiologo dell’Università di Stanford, sostiene che il compito principale della corteccia prefrontale consiste nell’influenzare il cervello nel fare le cose più difficili. La necessità della caccia rappresenta l’origine evolutiva delle aree prefrontali, le cui capacità inibitorie e di autocontrollo sono poi diventate essenziali nel momento in cui l’uomo ha cominciato a vivere in comunità sociali ampie, dove risultava necessario regolare il proprio comportamento, inibendo gli impulsi istintuali e imparando a seguire delle norme sociali.
Oggi sappiamo che la corteccia prefrontale va allenata, sviluppando la spinta ad apprendere, ad approfondire conoscenze, capacità e competenze, provando passione per sfidare i propri limiti, cercando di migliorarsi costantemente e mirando all’eccellenza. Si tratta di attività legate a un piacere profondo, quello che i neuroscienziati definiscono wanting, ossia piacere anticipatorio. A differenza del piacere consumatorio, che si prova nel momento in cui un bisogno primario viene soddisfatto, il wanting è collegato al desiderio che porta gli esseri umani ad appassionarsi intensamente a qualcosa e ad attivarsi verso un obiettivo ambizioso. Il wanting si basa sulla mediazione di un neurotrasmettitore, la dopamina, la cui scarica viene percepita dal cervello come un’anticipazione del piacere consumatorio. Diversi esperimenti su topi geneticamente modificati, privati delle aree prefrontali, dimostrano come questi diventano impulsivi, incapaci di impegnarsi nella ricerca del cibo, anche quando questo è posto a pochi centimetri dal loro muso. Vogliono tutto e subito, desiderano gratificazione istantanea: se quel cibo viene direttamente introdotto nelle loro bocche, lo mangiano e sembrano anche gradirlo, ma non dimostrano alcun impegno nella sua ricerca.
La capacità di perseverare, quindi, nonostante le criticità che possono intervenire, deve essere continuamente stimolata, altrimenti rischia di indebolirsi. Darsi con continuità degli obiettivi importanti, ma comunque raggiungibili, alimenta il nostro senso di padronanza e contribuisce alla produzione di dopamina che, agendo come una sorta di booster motivazionale, può rappresentare per noi un potente alleato nell’affinare l’arte di perseverare.
Il potere dell’autocontrollo, per non cedere alle tentazioni
Talvolta è proprio da noi stessi che dobbiamo proteggerci. Sappiamo che dovremmo fare una cosa, ma preferiamo posticiparla; oppure sappiamo che sarebbe meglio evitare di fare qualcos’altro, e tuttavia ne siamo attratti. Il nostro istinto ci indirizza verso una decisione potenzialmente errata. Di fronte a questa minaccia, entra in gioco l’autocontrollo. Abbiamo bisogno di rallentare, prenderci una pausa per pensare, ragionare e orientare al meglio le nostre scelte.
Suzanne Segerstrom, psicologa dell’Università del Kentucky, qualche anno fa, studiando il modo in cui gli stati mentali influenzano il corpo, ha scoperto che l’autocontrollo ha un correlato biologico. Il bisogno di autocontrollo attiva un insieme di cambiamenti nel cervello e nel corpo che ci aiutano a non cedere alla gratificazione istantanea e a perseverare nelle attività che richiedono impegno e dedizione. La Segerstrom ha definito questi mutamenti “risposta pausa-pianificazione”: si tratta di un meccanismo che inizia con la percezione di un conflitto interno (ad esempio quando il nostro istinto ci spinge verso una decisione sbagliata), la quale innesca dei cambiamenti nel cervello e nel corpo che ci aiutano a rallentare e a controllare i nostri impulsi. È la corteccia prefrontale che si mette in azione per aiutarci a fare la scelta giusta. Invece di cedere immediatamente a una tentazione, come il marshmallow del famoso esperimento di Mischel, la risposta pausa-pianificazione ci trattiene dal seguire immediatamente i nostri impulsi, dandoci il tempo per agire in maniera più riflessiva e ragionata.
Perseverare è umano…
L’arte di perseverare, come ricordava anche Steve Jobs, è ciò che distingue il successo dall’insuccesso. Certamente perseverare, quando mete e obiettivi si diluiscono su periodi lunghi, non è semplice. L’attivazione delle aree prefrontali del cervello ci consente di stimolare due principali comportamenti: rimandare la gratificazione (proprio per inseguire obiettivi a lungo termine) e investire in termini di impegno e sforzo costanti. Per quanto ciò possa risultare difficile e sfidante, rientra sicuramente nelle nostre possibilità e facoltà. Con le parole dello psicologo Pietro Trabucchi, “al contrario di quello che sostiene il noto detto, perseverare non è diabolico: è umano. Diabolico è rinunciare a impegnarsi, rimanere immobili, mettersi ad aspettare che la motivazione arrivi dall’esterno, non sfruttare a fondo tutte le risorse di cui gli esseri umani sono dotati. Se impegno e motivazione mettono in grado di raggiungere risultati straordinari, diabolico è sprecare questa opportunità”.