Perché lasciarsi andare “alla deriva” a volte può essere utile
Cosa ci fa più paura di andare alla deriva? In un mondo dominato dal controllo, dalla tecnologia, dalla logica e dall’efficienza, una delle principali forme di angoscia è quella di non avere una direzione, sentirci persi nel mare della contemporaneità, andare alla deriva per l’appunto. Per questo facciamo di tutto per darci una direzione: obiettivi, lavoro, relazioni ma anche leggi, regole, appuntamenti che scandiscono le nostre vite.
La deriva ci spaventa perché ci mostra tutta la nostra fragilità di piccoli esseri viventi in un mare sterminato e ostile, che può sopraffarci appena lo desidera. Andare alla deriva ci ricorda in modo crudo che prima o poi moriremo.
Tutto questo è terrificante, ma drammaticamente reale e umano.
Darci degli obiettivi è di certo qualcosa di nobile e giusto, ma al tempo stesso è un modo per ingannarci per un po’ di tempo, essere distratti quanto basta per non pensare alla morte e dimenticarci della nostra precaria condizione esistenziale. Accade però, a volte, che quando la gabbia di caselle che abbiamo costruito per impostare la nostra vita si fa troppo serrata, prende forma un istinto primordiale, che emerge dalle viscere del nostro animo, quelle forse più torbide e dionisiache: quella voglia di distruzione, di caos, di far saltare tutto per concederci il privilegio di condurre la nostra esistenza verso una sfolgorante deriva. Andare alla deriva è un po’ come aver perso tutto, sentirsi vuoti e precari.
Una delle meraviglie dell’umano è proprio la contraddizione che abita in noi, istinto e ragione convivono, si sopportano ma talvolta detonano in conflitti o in furore vitale.
Forse ciò che è alla base del fenomeno recente della Great Resignation è proprio un istinto vitale che chiama a una urgente deriva, necessaria per riprendere in mano la propria esistenza, scardinando incasellamenti precostituiti che non sono stati scelti da noi. Oppure, ad esempio, la sempre più frequente necessità di giovani studenti di ritagliarsi periodi sabbatici per capire cosa vogliono realmente, frutto dello stesso desiderio di indeterminatezza. Tutti segnali che l’eccesso di ingabbiamento della nostra società confligge con la nostra natura fatta di istinti primordiali, di oscillazioni tra ordine e disordine, tra costruzione e caos, tra direzione e deriva.
E se usassimo questi concetti ambivalenti anche come pratica di management? Forse romperemmo il tabù del controllo, di avere la situazione sempre in pugno. Uno stile di guida che contempli momenti di deriva potrebbe essere più aderente alla natura umana, forse più resiliente agli shock.
Ci sarà un motivo perché esiste questa pulsione alla deriva in noi? Intendo dire, se la natura ci ha dotato di questa caratteristica ci sarà uno scopo legato alla sopravvivenza, o no? Quando un’impresa è stanca e si muove lentamente verso il baratro non è forse il caso di togliere i vincoli, le procedure, le regole interne, facendo saltare gli schemi, lasciarla andare a briglia sciolta e solo dopo una fase di deriva vedere cosa è accaduto? E comunque come recita la canzone “Onda su onda” di Paolo Conte, da cui questo testo è liberamente ispirato, solo andando alla deriva si può intercettare l’inaspettato, e finire su un’isola delle delizie, circondati da “donne da sogno, banane e lamponi”.
È proprio questo il punto. La deriva è necessaria per scardinare le regole che noi stessi abbiamo creato, altrimenti soffocheremmo. La deriva è anche l’unico modo che abbiamo per trovare l’introvabile, per scoprire l’impensabile o più semplicemente per naufragare del tutto. Ma è la nostra esistenza a essere così, nel suo diabolico fascino, terribilmente e drammaticamente incerta.