Non perdere tempo a maledire il buio: accendi la luce
Non credo che chi mi sta leggendo sia affetto da questa vera e propria psicopatologia che sta pericolosamente dilagando. Sto parlando di quella nube tossica e maleodorante di rancore, risentimento, ostilità, aggressioni verbali, che come un virus si è propagata dalle menti di tanti alla comunicazione in rete creando un clima irrespirabile per non dire letale. Qualcuno dà la colpa al web e ai social, ma sono sciocchezze: il web e i social possono amplificare, ma l’origine del morbo è nell’attitudine di tanti verso l’esistenza.
A me viene sempre in mente quella perturbante, durissima scena di Game of Thrones in cui Cersei – personaggio shakespeariano se ce n’è uno – viene sottoposta a un pubblico linciaggio – nuda in mezzo alla plebe al grido di Shame! Shame! – da parte di una punitiva setta integralista. Lei è la regina, loro i sudditi che il giorno prima si inchinavano a lei: ma basta che qualcuno la additi alla pubblica riprovazione perché venga allo scoperto la voglia miserabile di trascinare nella polvere chi sta sopra. Non mi metto certo a lanciare appelli alla bontà e alla fratellanza: sono discretamente consapevole di vivere in un mondo dove trucchi e soprusi sono spregevole moneta corrente. Ma quando si comincia a sospettare di tutto e di tutti, quando si parte da una presunzione di colpa, quando si pensa che se qualcuno ha ottenuto qualcosa chissà cosa c’è sotto, allora si mette in circolo un veleno che corrode ogni relazione umana.
Temo che un antidoto universale non esista: ma un po’ di cose a chi ancora non si trova in fase acuta della patologia possiamo dirle. Possiamo dire che non è togliendo a chi ha che ci si arricchisce. Non è vedendo qualcuno cadere che ci si innalza. Non è perché “loro” sono cattivi che tu sei bello e bravo. Non è che la tua esistenza migliora se quella di altri peggiora. Non è che l’oscurità intorno fa brillare te. Abbassare gli altri, godere a vederli in difficoltà, auspicare una notte in cui tutte le vacche sono nere, queste sono soddisfazioni miserabili. Auspicare minori disparità sociali ed economiche, opportunità più diffuse, è sacrosanto: ma un’eguaglianza al ribasso non è la soluzione, un’uguaglianza al ribasso è la vittoria della mediocrità.
Credo davvero si debba fare appello, in particolare con ragazze e ragazzi giovani, alla spinta a costruire qualcosa di proprio, qualcosa di cui andare fieri. Tanti lo fanno, e dovremmo evidenziarli, proporli come prototipo, non perché fare così è più giusto e buono e morale ma perché è più vantaggioso, perché è soltanto così che si valorizza se stessi, che ce la si gioca mettendo in campo le proprie capacità e man mano migliorandole. Perché può essere comprensibile guardare ai personaggi messi in evidenza dai media, alle celebrity, ai leader politici, ai vicini di casa lavoro o social: ma rivolgere l’attenzione agli altri, concentrarsi paranoicamente su quello che loro fanno, produce l’effetto dissuasivo di distogliere l’attenzione da quello che noi possiamo e dobbiamo fare, anabolizza il giudizio critico e deprime la responsabilità di costruire.
L’ammorbante diffusione del rancore comincia proprio da qui, dall’ossessiva importanza attribuita a quello che fanno gli altri che porta dritto a pensare che è ingiusto che loro ottengano quello che tu non hai e da lì arriva al dito accusatore puntato e all’indignata invettiva. Tutto questo va smantellato pietra dopo pietra, giorno dopo giorno, prima che ci sommerga: il miglior modo per farlo non è quello facile ma improduttivo di accusare a nostra volta gli untori del virus, ma quello – lungo, difficile – di mostrare quanto l’esistenza possa essere più vivibile provando ad accendere la luce invece che maledendo il buio.