La meritocrazia è davvero la strada giusta verso una società migliore?
Un fantasma si aggira per l’Italia, da tempo immemore. È quello della meritocrazia, che da ogni parte continua a essere evocata come l’unica strada possibile verso una società che funzioni davvero e che permetta al nostro Paese di crescere e di prosperare.
Questo neologismo, che fu coniato negli anni ‘50 dal sociologo inglese Michael Young, in origine si riferiva però a una ipotetica forma di governo in cui la posizione sociale di ogni singolo individuo fosse determinata esclusivamente in base al suo quoziente intellettivo e, conseguentemente, alla sua capacità e attitudine al lavoro. Una visione per molti versi terrificante, che qui da noi è stata negli anni riscritta e ribaltata, fino ad indicare invece una società in cui, anziché dipendere dall’appartenenza a lobby, partiti, discendenze o caste di qualsivoglia genere, la carriera delle persone sia determinata esclusivamente in base a non ben precisati criteri di merito. Due diverse facce della stessa medaglia che soltanto in apparenza portano a due risultati opposti, il secondo dei quali avrebbe, secondo i più, risultati e conseguenze positive se non addirittura taumaturgiche.
Quando si parla di meritocrazia dovremmo sempre e comunque essere cauti, tuttavia. Siamo davvero convinti che la mera logica del merito sia davvero in grado di garantire una società migliore? Dipende davvero tutto e soltanto dalla capacità e dalla disponibilità a mettere le persone giuste al posto giusto?
Fermo restando che chi merita dovrebbe essere sempre messo in condizione di arrivare a ricoprire il ruolo in cui è in grado di fare bene e che quando questo accade, in un mondo ideale, a vincere sono tutti, è così vero e automatico che questo avviene anche nel mondo reale? Quando ciò si verifica, in fondo, a vincere non è soltanto la persona che merita, ma vince anche vince l’organizzazione in cui essa è inserita e tutto il suo indotto, vincono i suoi collaboratori, vincono i suoi colleghi e tutto va per il meglio. Ma questo avviene quasi soltanto in un mondo ideale, purtroppo, perché nella realtà ci sono molte più variabili.
Quanto merita davvero colui che merita? Chi stabilisce cosa sia il merito? Quanto esso è davvero messo nelle condizioni di emergere e di dare frutto? Quanti sono disposti a riconoscerlo e ad entrare in sinergia con le competenze e la bravura di chi merita, determinando effetti e ricadute positive?
Ecco perché, nel mondo reale, è molto più facile favorire i mediocri e quelli che offrono concrete e rassicuranti garanzie di appartenenza a qualcosa che ci fa comodo gratificare. Il parente, l’amico, il raccomandato. Tanto più in una società composta da esseri umani, fallaci e facilmente influenzabili. Se fossimo macchine non ci sarebbero dubbi né problemi, perché sapremmo riconoscere immediatamente il valore e il ruolo ideale di ciascuno. Probabilmente in quel caso gli unici a trovarsi nei guai sarebbero proprio quei mediocri. Occhio, però: una società di questo genere, in cui il merito è certo è ben riconosciuto, rimarrebbe spazio per l’inclusione? Che ne sarebbe di chi non può avere grandi meriti, per limiti naturali e non per mancanza di volontà o applicazione? Non si rischierebbe di ritrovarsi automaticamente nella terrificante società ipotizzata da Young, in cui il merito si trasforma in una sorta di incubo? Basta pensare all’idea di merito di certi regimi autoritari, per rendersene immediatamente conto.
Quello del merito è un ottimo parametro, ma l’uomo fa fatica a gestirlo, spesso per disonestà più che per incapacità di valutazione, mentre le macchine sono spietate e senza alcuna empatia. Esse non tengono in considerazione altro che i dati oggettivi, senza guardare in faccia a nessuno. È per questo che stiamo per ritrovarci in un mondo del lavoro in cui le macchine, le automazioni di ogni genere, i robot e l’intelligenza artificiale potrebbero avere la meglio sugli esseri umani e relegarli in un angolo, a guardare quelli bravi davvero. A guardarli proprio mentre mettono in pratica quella meravigliosa utopia del merito che loro, gli uomini, non sono riusciti a realizzare per incompatibilità con il loro stesso essere.
A ben vedere, tuttavia, quello della difficoltà di riconoscere e di valutare in modo oggettivo il merito non è il solo ed unico problema con la meritocrazia. Ce ne sono almeno altri due, ben più pesanti sul piano etico e su quello del funzionamento della società
Il primo riguarda il contesto con il quale il merito si confronta. In un’organizzazione malavitosa, ad esempio, a meritare sono i più crudeli e spietati, così come in un’azienda che mette avanti a tutto il profitto, come molto spesso avviene, i più meritevoli non sono affatto quelli capaci di far funzionare meglio l’azienda e la società in cui essa è immersa, ma i più spregiudicati nel far guadagnare l’azienda stessa, magari sfruttando persone e depredando l’ambiente.
Allo stesso modo, rispetto agli interessi di un’azienda il merito potrebbe essere confuso, come spesso accade, con la capacità dei dipendenti di assolvere i compiti dati e di rispettare l’autorità dei superiori, dimostrando loro fedeltà e disponibilità, piuttosto che mettere in evidenza competenze e capacità di fare vera e propria.
È dunque la meritocrazia una vera opportunità o piuttosto qualcosa che nasconde tra le sue pieghe più pericoli che opportunità? La vera sfida del futuro – che è già presente – sarà probabilmente quella di non aspettare che siano le macchine a darci una risposta definitiva. La nostra umanità dovrà aiutarci a comprendere che il criterio del merito può e deve essere bilanciato da considerazioni che vanno ben oltre le competenze, i titoli e l’esperienza delle singole persone. Fatto salvo ovviamente il diritto di ciascuno ad ambire al lavoro e alla mansione che è in grado di svolgere al meglio.