L’empatia degli spazi: cambiare gli uffici, migliorare efficacia ed efficienza
Secondo Jeremy Rifkin «La coscienza empatica si è sviluppata lentamente lungo il corso dei 175mila anni di storia dell’umanità: a volte è fiorita, per poi regredire per lunghi periodi. Lo sviluppo dell’empatia e lo sviluppo del sé vanno di pari passo, e accompagnano la crescente complessità e sete di risorse delle strutture sociali che caratterizzano l’esistenza umana».
Il grande psicologo americano Carl Rogers è stato il primo a riconoscere nell’empatia quel “quid” che si crea tra paziente e terapeuta o, per contestualizzare, tra collaboratori, senza il quale sarebbe impossibile rendere “compartecipi” due persone in modo da far sì che tale scambio abbia valore. Rogers era arrivato alla conclusione che un alto grado di empatia in una relazione è probabilmente il fattore più potente nell’apportare trasformazioni e apprendimento.
Secondo Dev Patnaik, consulente manageriale, il problema delle aziende odierne non è una mancanza di innovazione, ma una mancanza di empatia. Soprattutto in una fase di recessione, l’empatia è una competenza che le imprese non possono permettersi di non sviluppare per prendere le decisioni migliori, per garantirsi il futuro della loro organizzazione.
Ma come si sono evoluti gli ambienti di lavoro dalla seconda rivoluzione industriale a oggi?
In Atelier i luoghi del pensiero e della creazione, la scrittrice Elisabetta Orsini ci immerge in un ambiente di lavoro davvero d’eccezione, in cui assistiamo proprio alla fusione tra l’uomo e il suo luogo di lavoro. «L’atelier costituisce una singolare sintesi fra il fuori e il dentro, fra il mentale e il corporeo. L’artista quando lavora nel suo studio permane dentro se stesso e si esilia dal mondo, escludendolo, ma ciò nonostante e proprio grazie al suo lavoro nell’atelier dimentica se stesso e la sua individualità per divenire parte della sua opera e del suo spazio di creazione. […] Finché l’artista continua a lavorarvi lo spazio è il suo corpo, (…) l’habitat esterno riflette quello interiore e prolunga il corpo dell’artista nel corpo dello studio».
Al giorno d’oggi, non c’è impresa che non sia alla ricerca di strumenti per integrare al meglio gli obiettivi individuali con quelli aziendali. Le trasformazioni radicali che toccano il mondo del lavoro in ogni suo aspetto inevitabilmente spingono le organizzazioni ad ampliare la loro concezione di lavoro verso nuovi orizzonti.
Alcuni esempi importanti sono il Googleplex, quartier generale di Google, il nuovo Apple Campus, a forma di astronave, in fase di costruzione, e la nuova sede di Facebook, con un immenso spazio in comune al pianterreno dove i dipendenti possono lavorare insieme, piccoli spazi per lavori privati, una sala conferenze con all’interno una vasca piena di palline per rilassare e divertire i dipendenti e un’area verde di nove chilometri quadrati sul tetto con oltre 400 alberi.
Googleplex, che ho avuto l’occasione di visitare più volte, è la fabbrica più immateriale del mondo, arredato in modo originale con lampade colorate, giganteschi palloni di gomma, divani rossi e numerosi servizi (ambulatori medici, bar, palestra, piscina, campo da beach volley). Gli uffici, le caffetterie e gli spazi in genere sono progettati per favorire le interazioni tra i Googlers e per parlare di lavoro come se si stesse giocando (tutti concetti di cui su Centodieci abbiamo parlato con l’intervento di Andrea Paoletti: Progettare spazi, disegnare community).
Interessante è leggere il report di Jane McConnell per scoprire che le aziende che si muovono verso un digital workplace stanno aumentando, ma in realtà solo il 25% delle organizzazioni lo sta attuando strategicamente. La conoscenza delle nuove modalità di lavoro è ancora scarsa e questo non consente l’ottenimento dei benefici sperati. La sfida è dunque quella di integrare il più possibile i social all’interno dei processi aziendali.
Harry Francis Mallgrave, nel suo bel libro L’empatia degli spazi, sostiene che «Gli edifici sono spesso considerati oggetti stravaganti piuttosto che elementi palpabili cui i nostri corpi e i nostri sistemi neurologici sono inestricabilmente connessi. L’architettura non è un’astrazione concettuale bensì una pratica incarnata e lo spazio architettonico si costituisce primariamente attraverso un’esperienza emotiva e multisensoriale. Se le più avanzate scoperte scientifiche promettono benefici in ambito biologico o psicologico, queste stesse scoperte hanno anche la potenzialità di migliorare i nostri ambienti costruiti. Particolare attenzione va posta verso coloro per i quali progettiamo: le persone che abitano gli edifici che costruiamo».