Le barriere più grandi? Sono quelle che costruiamo noi, nella nostra testa
Mi chiamo Giulia Ghiretti, ho 22 anni, sono di Parma. Sei anni fa ho avuto un infortunio in palestra che mi impedisce di camminare, ma non di vivere e di essere felice. Studio e nuoto, specialità delfino e rana. Ho vinto quattro medaglie agli Europei: tre argenti e un bronzo. Tre invece le medaglie ai Mondiali, tutte d’argento. Ho anche conquistato diversi titoli italiani, con numerosi record. Sono qualificata per le Paralimpiadi di Rio de Janeiro, un’esperienza unica, che aspetto con allenamenti duri e gioia.
Ero abituata a stare in aria: saltavo sul trampolino elastico. E mi sentivo libera. Prima da bambina, poi da adolescente: lo sport era libertà, amicizia e divertimento. Un titolo italiano, a soli 15 anni, mi aveva anche fatto pensare di aver intrapreso la strada giusta per fare qualcosa di buono nello sport. Poi arriva il 4 gennaio 2010. Erano i primi allenamenti dell’anno. Un salto andato storto e sono caduta male: ricordo un dolore lancinante e non sentivo più le gambe. L’ospedale diventa la mia casa per sei mesi. Una volta uscita dalla sala operatoria, guardo mia madre e le dico: «Mamma, ho due domande per te. La prima: perderò l’anno scolastico? La seconda: tornerò a camminare?». Mia madre non usa giri di parole: «A camminare no. Per la scuola ti devi impegnare».
Avevo capito che, pur non potendo più camminare, la mia vita poteva proseguire. Non dico normalmente, anche perché la parola “normale” non mi appartiene. Cos’è la normalità? Un concetto relativo, credo addirittura inesistente. E ora vi spiego perché.
Il secondo semestre della seconda superiore l’ho fatto dall’ospedale: lezioni e interrogazioni via Skype, verifiche via fax. Si può fare. Nel frattempo, i medici mi mettono in acqua per la riabilitazione. L’istruttrice mi dice: «due volte a settimana». E io: «te lo puoi scordare». Nel senso che per me, abituata a saltare tutti i giorni sul trampolino, due erano poche. Quindi vado in piscina più spesso, anche da sola, e in acqua mi accorgo che mi sento libera. Proprio come mi sentivo in aria, quando volteggiavo: da farfalla a delfino. Con un pensiero fisso: non dici «no, non posso», ma trasformi quello che c’è in quello che puoi e in quello che vuoi. Quindi inizio a far sul serio, a Parma, nella mia città, mentre porto a termine il liceo scientifico. E arrivano i primi risultati nel nuoto paralimpico: prima i titoli italiani, poi le medaglie europee e mondiali. Ora la qualificazione alle Paralimpiadi di Rio.
L’incidente non mi ha fermata, potevo diventare una campionessa di trampolino elastico, sono diventata una campionessa di nuoto. Prima usavo le gambe, ora uso le braccia. Tutto qui. Ho capito che la sofferenza fa parte della vita e che bisogna andare avanti e cercare di farlo in maniera positiva, senza porsi dei limiti. Ho realizzato che non ero io ad essere cambiata, ma solo la mia condizione e che quindi posso fare tutto come prima, trasformando il mondo intorno a me in base alle mie nuove necessità. Le barriere ci sono, sì, molte: però sono nella nostra testa.
Tre anni fa mi sono trasferita a Milano per studiare Ingegneria Biomedica, quindi anche per nuotare. Essere su una carrozzina non mi impedisce di guidare l’auto, vivere da sola, cucinare. Faccio tutto. E non penso a quando e se tornerò a camminare. Cammino tutti i giorni, anche se in un altro modo.