La benedetta necessità di reinventarsi ogni volta
[et_pb_section fb_built=”1″ admin_label=”section” _builder_version=”3.22″][et_pb_row admin_label=”row” _builder_version=”3.25″ background_size=”initial” background_position=”top_left” background_repeat=”repeat”][et_pb_column type=”4_4″ _builder_version=”3.25″ custom_padding=”|||” custom_padding__hover=”|||”][et_pb_text _builder_version=”4.3.1″ hover_enabled=”0″]
Non passeranno molte generazioni prima che il senso comune bolli come assolutamente folle la vita che hanno fatto i nostri padri e i nostri nonni. Vite da posto fisso, dove i più fortunati entravano in ditta ventenni e ne uscivano sessantenni, dopo una trentina d’anni di carriera spesso talmente corta da fare sempre lo stesso lavoro, dall’età delle grandi passioni a quella del disincanto.
Che quel modello fosse in crisi era chiaro sin dagli anni ‘90 del secolo scorso, ma dopo la grande crisi del 2008, che si trascina ancora in tutto l’Occidente, il posto fisso è diventato un ricordo del passato. In realtà quella che chiamiamo crisi, altro non è che il passaggio a una nuova era, in cui le persone guarderanno la loro esistenza in un modo completamente diverso rispetto al passato. Un’era in cui il vecchio concetto di “farsi una posizione” e di garantirsi il futuro lavorando per 8 ore al giorno presso un’azienda, just for the money, non avrà più nessuna attrattiva, oltre che pochissimo senso.
Quel vecchio modello era il frutto acerbo di una civiltà che, a partire dalla fine del ‘700, aveva iniziato un rapido percorso evolutivo, focalizzato sulla tecnologia e sull’innovazione costante. Quel modello aveva senso nel mondo analogico, in cui la poca automazione che si andava via via implementando non era sufficiente a liberare le mani degli uomini dalle incombenze meno gratificanti e più povere di valore. Oltretutto il mondo era molto “più grande” di ora, gli spostamenti enormemente più lenti, le frontiere più rigide e nette, gli scambi commerciali più gravosi. Anche in quel mondo molte aziende delocalizzavano e si muovevano sul planisfero con agilità, lasciando a piedi i loro dipendenti e fregandosene della loro sorte, ma all’epoca un altro lavoro prima o poi si trovava.
Oggi la situazione è molto diversa. Chi si immette nel mercato del lavoro sa già che dovrà reinventarsi più volte, nel corso della sua parabola lavorativa. Siamo nell’era dei free lance, delle partite iva, dei contribuenti minimi e di molte altre figure difficili da inquadrare, camaleontiche, in continuo divenire.
Non altrettanto convinto è chi ha iniziato a lavorare nel vecchio mondo e si ritrova oggi senza lavoro nel nuovo. Gente lontana dalla pensione, spesso esasperata da anni di montagne russe emotive in cui nelle loro aziende filtrava ogni genere di informazione: si chiude, si delocalizza, si va in cassa integrazione, ci sono esuberi di personale, si cambia proprietà, si entra in regime di concordato…
Per queste persone reinventarsi è una priorità assoluta, che spesso fanno fatica ad affrontare. Il motivo è semplice e banale: per molti anni si sono cuciti addosso ruoli, etichette, mansioni, stili di vita che alla lunga non sono più capaci di cambiare. Non sono molti quelli che sono arrivati a questa condizione per scelta o per passione; la maggior parte di loro vi è approdata a valle dell’esperienza scolastica e a seguito di enormi giri alla ricerca del posto fisso, sebbene la storia già dicesse altro.
Eppure nessuno di noi è davvero, fino in fondo e per sempre, l’etichetta che si è o che gli hanno cucito addosso dopo la scuola, né il titolo che ha conseguito o la mansione che ha svolto per anni. Siamo molto più di quello che sappiamo fare e infinitamente di più di quello che siamo stati preparati o certificati per fare.
Il problema non è cosa sappiamo o non sappiamo fare, ma cosa siamo disposti a imparare e sperimentare, infatti, tra le infinite nuove opportunità che il nostro mondo oggi offre, dopo 25 anni di disruption che hanno cambiato tutto.
Quello che la tecnologia ci permette oggi di fare ha infatti caratteristiche che lo rendono accessibile ad una platea molto più vasta di quanto non sia mai accaduto. Le nuove tecnologie sono più economiche, più semplici da utilizzare, più performanti. Se negli anni ‘90 ci voleva l’equivalente di molte migliaia di euro odierne per iniziare un’attività in proprio, ora la fase di startup è più morbida da tutti i punti di vista e il solo limite è proprio la determinazione e la convinzione di chi si lancia in una nuova attività. Non solo: oggi partire con qualcosa di nuovo offre anche la possibilità di “cucirsi addosso” quello che si inizia a fare. Reinventarsi non significa dunque necessariamente dover cambiare tutto, ma rimodulare la propria vita in funzione delle esigenze familiari, ad esempio, partendo da un assunto fondamentale: se finora abbiamo fatto qualcosa, che ci piacesse o no, per portare a casa dei soldi a fine mese e garantire un futuro a noi stessi e alle nostre famiglie, ora la musica cambia. I soldi, di cui non possiamo fare a meno, non possono più essere il fine ultimo di quel che faremo, ma la sua conseguenza. Sembra soltanto una sfumatura, ma non lo è affatto. Ciò che facciamo in proprio, senza nessuno che ci dica come dobbiamo farlo, perché e in che tempi, è figlio di un impegno che si estende sull’intera filiera del lavoro: formazione, aggiornamento, tecnologie, relazioni, obiettivi. Siamo noi a scegliere, dall’inizio alla fine del percorso, con tutto ciò che questo comporta.
[/et_pb_text][slider_article _builder_version=”4.3.1″ max=”10″ hover_enabled=”0″][/slider_article][/et_pb_column][/et_pb_row][/et_pb_section]