Sei sicuro che il lavoro che fai ti renda felice?
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Soddisfazione, clima, motivazione. Ma anche benessere, coinvolgimento, fiducia. E poi salute, relazioni, emozioni, conciliazione, cura, serenità, dignità, dialogo, ascolto. È solo un piccolo esempio dei termini, anzi, dei concetti, anzi, delle dimensioni di cui si dovrebbe tener conto quando si affronta il tema della felicità in azienda. O, meglio, della felicità legata al lavoro. Dove per felicità s’intende, come recita il dizionario: “stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato”.
Il lavoro che faccio mi rende felice? Esiste un lavoro per sua natura felice – o più felice del mio – a prescindere da chi lo fa?
Già la numerosità ed eterogeneità delle dimensioni a cui si è accennato fanno capire come sia estremamente complesso, per non dire impossibile, rispondere in modo univoco a queste domande. Allo stesso tempo, però, impossibile è non provare a farlo. Anche perché, se vogliamo dirci la verità, sono domande che ognuno di noi si pone un giorno sì e l’altro pure. E sarebbe un guaio se così non fosse, perché vorrebbe dire che si è smesso di ricerca la “felicità”, o la migliore e più soggettiva approssimazione che ognuno vuol dare al concetto di felicità, non solo sul lavoro ma nella propria vita, su cui il lavoro incide in maniera fondamentale anche se evidentemente non esclusiva. Che il lavoro ci renda il più possibile felici o quantomeno non infelici è allora una questione primaria che ci riguarda tutti e da vicino: persone, imprese, istituzioni, collettività. Finalmente pare che il messaggio, sebbene con fatica, sia cominciato a entrare in circolo anche nella cultura imprenditoriale.
Lo dimostra in generale il fatto che la responsabilità sociale e la sostenibilità, dove la “felicità” dei dipendenti occupa un posto di primo piano, sono ormai ambiti strategici con cui le aziende di ogni ordine e grado non possono non confrontarsi. A richiederlo in modo pressante alle aziende come a tutti gli attori socio-economici e istituzionali sono tra l’altro gli SDGs, gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite nel 2015, che al goal numero 8 parlano esplicitamente di “lavoro dignitoso per tutti”: vero è che dignità non è la stessa cosa che felicità, ma è difficile pensare che la prima non sia un mattoncino indispensabile per la seconda. Che un lavoro che rende felici non sia almeno un lavoro che tutela e promuove la dignità della persona. O un lavoro che, anche se stanca, nobilita, per dirla col celebre adagio.
A dimostrarlo in modo ancora più specifico, però, e a renderlo assai visibile, è la presenza in un numero ancora ristretto ma crescente di realtà aziendali della figura del manager della Felicità. Il Chief Happiness Officer (CHO), che si è già guadagnato una voce su Wikipedia. In Italia esiste anche un percorso di certificazione per diventare CHO.
Sia chiaro: la ricetta per il lavoro felice, o per essere felici lavorando, non è ancora stata trovata e forse non potrà mai esserlo, se si ha in mente qualcosa che possa essere valido per chiunque e in qualsiasi contesto. Ma la notizia è che oggi nelle aziende si sta diffondendo una spinta importante a mettere in relazione – concretamente, con metodo, sperimentando e discutendo – felicità e lavoro. Che essere felici sul lavoro conta, economicamente oltre che personalmente. E che, soprattutto, si può fare. Cioè che anche attraverso o sul lavoro – comunemente associato a fatica, obbligo, controllo, ansia di risultato, stress e via discorrendo – si può aspirare a raggiungere quello “stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato”. In Danimarca hanno coniato addirittura un nuovo termine, “arbejdsglæde”, che significa appunto felicità sul lavoro: pare esista solo lì.
Certo, se si pensa che “fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno nella tua vita” è una massima attribuita a Confucio, c’è voluto – come dire – giusto un attimo di tempo. Ma ci siamo arrivati.
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