Lavorare meno e lavorare meglio è possibile?
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Non è forse vero che vivere da adulti significa lavorare, portare a casa il salario, ritagliarsi appena il tempo per figli e hobby, correre sul tapis-roulant e andare a dormire presto, finché non arriva il sabato per una passeggiata sul lungomare e poi il lunedì ricomincia il loop?
Il punto è la concezione stessa del lavorare che si concretizza direttamente nel modus operandi della distribuzione oraria. Le giornate scandite da ritmi frenetici rischiano di tagliare fuori dall’ecosistema individuale la possibilità di avere una vita vera, fatta di interessi che esulino — e meno male — dal mondo lavorativo.
La distribuzione oraria, come dicevamo, è sicuramente il punto di maggior conflitto dopo la distribuzione salariale. Ma a pensarci, lo è neanche troppo; tanto da pensare alla situazione con lucida rassegnazione: così è e così sarà.
Fanno ben sperare quindi le notizie che arrivano dai Paesi baltici, dove la concezione del lavoro e delle ore da dedicare alla propria professione, cambia di stato in stato e si dimostra tanto diversa quanto più funzionale di quella italiana.
Esempio tra tutti la Danimarca. Il modello danese è ormai sinonimo del perfetto work life balance.
Ufficialmente l’orario di lavoro settimanale è di 37 ore, ma una nuova indagine dell’OCSE mostra che il danese medio lavora appena 33 ore circa alla settimana. Non si superano le otto ore, non c’è necessità di rimanere maggiormente in azienda, né tecnica né sociale — la classica “bella figura”.
Non solo; restare in ufficio oltre l’orario standard — dalle 8 alle 16 — metterebbe quasi il lavoratore in cattiva luce. Le riunioni non sono mai fissate oltre le sedici e le attività personali, a volte, sono anche inserite in un calendario lavorativo, rispettato anche dal resto dei colleghi. Se ad esempio un componente del team dovrà prendere il proprio figlio a scuola alle 16 in punto, si farà di tutto per rispettare tale impegno.
Coltivare la propria vita al di fuori dell’ufficio diventa il miglior incentivo a produrre più e meglio all’interno dell’ufficio stesso. Tale distribuzione del lavoro è conseguenza diretta della concezione flessibile del mercato del lavoro danese. Dibattito che nei Paesi baltici va avanti dall’inizio degli anni ‘90. Il modello della Flexybility danese basa la sua struttura infatti proprio sull’idea di un posto di lavoro adattabile e flessibile. I dipendenti danesi non rimangono nella stessa azienda, ad esempio, per più di otto anni.
Il suo funzionamento si basa su tre semplici pilastri fondamentali:
flessibilità del mercato del lavoro
generosi ammortizzatori sociali
politiche attive che favoriscono il reinserimento del lavoratore.
La domanda conseguente allora è: visto che anche la neo-eletta Prima Ministra finlandese vuole lavorare su questo modello lavorativo nel suo Paese, si potrebbe pensare di lavorare meno e meglio anche in Italia?
Probabilmente no, almeno guardando al quadro lavorativo italiano. Semplificando, l’imprenditore italiano è costretto a destreggiarsi in un sistema fatto di tasse considerevoli, per questo spesso guarda anche all’assunzione di un semplice stagista come un rischio. Per questo le aziende sono più propense a contratti a breve termine, coscienti che questo turn over rovini la strategia imprenditoriale a lungo termine. Per questo — ovviamente — in Italia esiste un’attenzione piuttosto maniacale attorno al minuto rubato alle ore di lavoro, ai permessi di troppo. Ogni cosa segue un’idea di lavoro rigido, calibrato in base a categorie vecchie e usurate.
Lavorare meno e meglio in Italia è quindi possibile?
In realtà probabilmente sì: ma solo a costo di un’operazione profonda di svecchiamento e ripensamento perché, su questo non c’è dubbio, si vive per vivere e il lavoro è solo un mero strumento ausiliario.
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