La sfida del minimalismo digitale
Quante volte al giorno controlliamo il nostro smartphone? Uno studio del 2017 di Dscout, società di ricerca americana focalizzata sul mondo consumer, rivela che l’utente medio trascorre ogni giorno 145 minuti sul proprio smartphone, per un totale di 76 sessioni e circa 2.600 tocchi (che diventano oltre 5.000 per gli utilizzatori intensivi). Questi dati si aggiungono a quanto afferma Apple: i suoi utenti sbloccano il proprio iPhone circa 80 volte al giorno, tra le 6 e le 7 ogni ora. Sono numeri che impongono una riflessione e sollecitano un quesito: esiste una reale dipendenza dal nostro smartphone?
Fino a non molto tempo fa, parlando di dipendenza si faceva riferimento all’alcol e alle droghe, ossia a sostanze che presentano principi psicoattivi che influiscono direttamente sulla chimica cerebrale. Da circa venti anni un crescente numero di studi ha suggerito che anche i comportamenti che non prevedono l’uso di sostanze possono causare dipendenza: il gioco ne è un chiaro esempio, così come la dipendenza da Internet. Le nuove tecnologie sembrano essere particolarmente adatte a favorire dipendenze comportamentali, che alla lunga possono rivelarsi decisamente dannose per il nostro benessere psicofisico.
Su questo tema un saggio estremamente illuminante è Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni, di Cal Newport, docente alla Georgetown University di Washington. L’autore parte dalla considerazione che le nuove tecnologie hanno completamente modificato il nostro modo di vivere a partire dai primi anni del nuovo millennio. Cambiamenti massicci e radicali si sono insinuati nelle nostre esistenze molto rapidamente, forse troppo.
Ho diversi amici che lavorano in ambito digital; di fronte ai ragionevoli dubbi che per mia forma mentis manifesto prima di entusiasmarmi per ogni nuova tecnologia, puntualmente mi forniscono valide argomentazioni circa la loro utilità. Ma il punto è un altro, ossia l’autonomia. Come sostiene Newport, le nuove tecnologie “sempre più ci dettano come comportarci e cosa provare e, in qualche modo, ci costringono a utilizzarle più di quanto pensiamo sia giusto, spesso a discapito di altre attività che riteniamo di maggior valore”.
Ma come siamo arrivati a questo? Come abbiamo smesso di considerare la tecnologia come qualcosa di effettivamente utile, approfondendone invece ogni piega di improduttiva inutilità? Adam Alter, docente di economia alla Princeton University, nel 2017 pubblicava Irresistibile. Come dire no alla schiavitù della tecnologia, un saggio in cui indagava le due principali strategie messe in atto dalle tecno corporation per stimolare la dipendenza comportamentale: il rinforzo positivo intermittente e il desiderio di approvazione sociale. Per quanto riguarda il primo, occorre ricordare l’introduzione del Like di Facebook nel 2009: un semplice ed apparentemente innocuo tasto ebbe il potere di stravolgere la psicologia di utilizzo del social network. Quello che era più che altro un modo passivo di seguire le vite degli amici, diventava un mezzo interattivo che faceva sembrare estremamente stimolante postare contenuti e controllare le reazioni della nostra audience. Il medesimo meccanismo oggi consente a tutti i social di riuscire a tenere incollati i nostri occhi sullo schermo. Il feedback (un like, un cuoricino, una reazione, un commento) non è soltanto imprevedibile, ma è anche correlato all’approvazione altrui. Se molti dei nostri contatti mettono un like ad una foto o ad un video che abbiamo postato, ne siamo gratificati: il nostro pubblico ci mostra approvazione, e questo ci lusinga. Le notifiche ricevute diventano un indicatore essenziale e sostanzialmente affidabile della nostra capacità di suscitare reazioni negli altri. Molto spesso è qualcosa di effimero, momentaneo, inconsistente, ma è pur sempre qualcosa che ha il potere di regalarci una piccola gioia, o almeno un sorriso. Tuttavia, se ciò non accade, se cioè non riceviamo like e reazioni da parte dei nostri contatti, è il nostro ego a soffrirne. In un sistema di validazione sociale come quello dei social, così esplicito e diretto, occorre essere dotati di una personalità solida e ben definita per non farsi influenzare negativamente dall’eventuale (e sempre possibile) indifferenza online. Con le parole di Adam Alter, “un post senza like non è solo doloroso in privato, ma rappresenta anche una specie di pubblica condanna”.
Ora, poniamoci una domanda: abbiamo realmente bisogno di tutto questo? Possiamo farne a meno, almeno un poco? Possiamo impegnarci a riflettere su quanto le tecnologie di cui disponiamo ci possano essere veramente utili? La proposta di Cal Newport non è certamente improntata ad un atteggiamento di rifiuto tecnologico. Piuttosto, è un’acuta riflessione che si riassume in una “filosofia d’uso della tecnologia per scegliere criticamente quali strumenti digitali adottare, partendo dall’analisi dei motivi che ci spingono a farlo e dei limiti entro cui accettiamo di farlo”. Non si tratta di rifiutare le innovazioni che la tecnologia continuamente propone, ma semplicemente di scegliere con maggiore cura quali tecnologie utilizzare: se non hanno da offrire più di un piccolo divertimento o di una comodità cui poter rinunciare, possiamo serenamente non adottarle.
Il minimalismo digitale suggerito da Cal Newport rappresenta oggi una vera e propria sfida che si scontra continuamente non soltanto con l’abitudine a considerare utile e necessaria ogni tecnologia che è entrata a far parte della nostra quotidianità, ma anche con il noto fenomeno del FOMO, acronimo di fear of missing out: molte persone temono di perdersi qualcosa di interessante se non continuamente connesse, di essere tagliate fuori, nella convinzione che gli altri stiano facendo qualcosa di “importante” che sarebbe bene non perdersi. Partecipare continuamente e ossessivamente alla festa dei social ci può far sentire parte di una grande community, azzerando il rischio della solitudine. Ma è davvero rischioso assaporare un po’ di solitudine, oppure se ne può trarre qualche beneficio?
Il filosofo Blaise Pascal sosteneva che “tutti i problemi dell’umanità hanno origine nell’incapacità dell’uomo di rimanere seduto in silenzio, da solo, in una stanza”. Senza dubbio tutte le nuove tecnologie contribuiscono a ridurre, se non ad eliminare del tutto, il tempo che possiamo trascorrere in solitudine con i nostri pensieri e le nostre riflessioni più profonde. Al minimo accenno di noia, prendiamo il nostro smartphone e lanciamo un’occhiata rapida ad app, siti web e social, che sono pronti a togliere del tutto l’esperienza della solitudine dal nostro quotidiano. Recuperarne almeno un poco ci consentirà di sperimentarne i benefici: la capacità di esercitare il pensiero, analizzare fatti e situazioni, gestire e regolare i nostri stati emotivi. Si tratta, in fondo, dei privilegi di cui noi umani godiamo; e il minimalismo digitale si propone oggi come una vera e propria sfida per valorizzare tali prerogative, mirando al tempo stesso ad innalzare il livello di qualità della nostra vita.