La società della stanchezza
Come stare bene in un mondo che rifugge il vuoto e valorizza l’iperattività?
“Come stai?”, “Stancamente bene!”. Mi capita sempre più di sentire questo tipo di risposta dalle persone e la cosa mi preoccupa. Mi preoccupa in quanto psicologa, ma non solo. In questo articolo parliamo di stanchezza, del rischio di identificarla come una condizione positiva e di cosa invece possiamo fare per coltivare una vita in cui stiamo bene, davvero.
Nel saggio “la società della stanchezza” il filosofo sud-coreano Byung-Chul Han osserva quello che lui chiama l’homo laborans, ovvero l’essere umano odierno che nel mondo occidentale realizza la propria esistenza nella quantità di lavoro che esegue e in ciò che produce. Questa vita fatta di iper-performance rischia però di non fare altro che logorarci.
La pigrizia pare essere l’ottavo e il peggiore vizio capitale nella società in cui viviamo dove produrre sempre più e lavorare sempre più sono le modalità per essere guardati con ammirazione dal mondo esterno. Anche gli amici ormai ci scrivono sempre più spesso “Scusa rispondo solo ora, ma ero preso da mille impegni” e sempre meno sentiamo dire “Oggi mi sono preso del tempo per non fare nulla”.
L’uomo in realtà però non è nato per il lavoro. Chi lavora non è libero. Per Aristotele, l’uomo libero è qualcuno che è indipendente dai bisogni della vita e dalle sue costrizioni. A sua disposizione ha tre forme di vita: in primo luogo, la vita che si rivolge al piacere delle cose belle; in secondo luogo, la vita che realizza bei gesti nella polis; infine, la vita contemplativa, che, mediante l’indagine su ciò che è eterno, si mantiene nel regno della bellezza perpetua. Vero che i tempi da Aristotele a oggi sono cambiati, ma credo che qualche spunto utile ce lo possa ancora dare.
Byung-Chul Han ci parla di malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo borderline di personalità o la sindrome da burnout che connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. E quindi nascono anche nuovi termini come lo “stresslaxing”, ovvero la manifestazione di un forte stress quando dovremmo rilassarci nel tempo libero. Si tratta dell’ansia che si origina dal provare a staccare la spina e non riuscirci davvero, alimentando dunque la propria frustrazione.
E con la scomparsa del riposo vero si rischia di perdere la facoltà di ascoltare che si basa su una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui l’ego iperattivo non ha vie d’accesso. Ascoltare l’altro, ma innanzitutto ascoltare sé stessi, i propri bisogni e desideri. Oggi il tempo viene assorbito totalmente dal lavoro e persino la pausa fa parte del tempo di lavoro: serve a farci recuperare energie per permetterci di continuare a funzionare nell’operatività.
Che fare quindi in questa situazione per uscire dal circolo vizioso della perenne stanchezza? Intanto possiamo partire dall’ascolto e in particolare dall’ascolto di sé. Chiediamoci come stiamo e rispondiamo in tutta onestà a noi stessi. E tra le risposte non contempliamo lo “stancamente bene” che si sta diffondendo sempre più. Perché o siamo stanchi o stiamo bene, non possiamo pensare che essere stanchi sia stare bene.
Il secondo spunto che mi sento di dare rispetto a questo tema è di prendersi del tempo per coltivare il piacere delle cose belle di cui parla Aristotele. Individuiamo almeno una cosa che ci piace fare, ci nutre l’anima, ci fa davvero stare bene nella nostra quotidianità, e seguiamola.
E chiudo con un appello per seminare un piccolo cambiamento nella nostra società: la prossima volta che ci prendiamo del tempo, per quanto breve, per non fare nulla, diciamolo alle persone intorno a noi e cerchiamo di instillare in loro il valore che può avere la pigrizia.
Buon riposo, vero!