La parità è ricchezza per tutti
Si parla molto di parità e in Italia abbiamo buone leggi, ma l’uguaglianza è un obiettivo che sembra ancora lontano e che dipende da fattori di organizzazione sociale che non la favoriscono e, anzi, spesso la ostacolano. L’empowerment – ovvero la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, nelle relazioni personali e nella vita politica e sociale – passa soprattutto dalla istruzione, dalla formazione e dal lavoro. Ma l’occupazione femminile nel nostro Paese è così bassa che non arriva al 50 per cento, al Sud scende intorno al 32 e, per le donne meridionali con basso titolo di studio, non tocca il 20 per cento.
Eppure, l’uguaglianza di genere non è solo un obiettivo importante per ragioni ideali, morali, esistenziali, ma è una vera e propria condizione di sopravvivenza per il sistema economico. Il lavoro delle donne può portarci fuori sia dalla crisi sia dalla trappola del declino demografico. Uno studio dello European Institute per Gender Equality (EIGE), lo dimostra. La crescita economica femminile porterebbe una crescita del 10% del PIL pro-capite, e di circa quattro punti percentuale nei tassi di occupazione in Europa entro il 2050. La disparità di genere viene misurata ogni anno dal World Economic Forum perché è noto che la parità tra i sessi è sinonimo di maggiore competitività e prosperità dal punto di vista economico, oltre che sociale. Perfino uno studio del Fondo Monetario Internazionale suggerisce che la presenza di donne nel sistema bancario, e la presenza di donne nei consigli di amministrazione, sono associate a una maggiore stabilità delle banche.
E’ interessante notare che le donne italiane sono più istruite degli uomini, hanno in media titoli di studio più alti e voti migliori. La percentuale di 30-34enni con un titolo di studio superiore è del 32,5% per le donne rispetto al 19,9% per gli uomini. Eppure, se guardiamo agli anni successivi alla laurea, scopriamo che solo il 59,2% delle donne neolaureate lavora, contro il 64,8% degli uomini. È uno spreco enorme di capitale umano altamente qualificato che potrebbe far crescere produttività e consumi, grazie all’aumento di famiglie a doppio reddito, nonché a servizi e prodotti dedicati esclusivamente alle donne con capacità di spesa. Invece anche la qualità della partecipazione al mercato del lavoro rivela disuguaglianza perché, sebbene molti studi dimostrino l’importanza di avere figure femminili in ruoli apicali, le carriere femminili rimangono qualitativamente le peggiori. Oggi in Italia è ancora esiguo il numero di donne in posizioni manageriali e dirigenziali: nelle aziende private si attestano al 22% con un salario del 3% inferiore agli uomini. Insomma, maggiore presenza nell’istruzione superiore e migliori risultati scolastici delle donne non le aiutano a trovare lavoro e a fare carriera, e neppure a raggiungere i vertici. Questo dipende dalla carenza di servizi sociali, pubblici e privati, che permettano di avere una famiglia e anche di far bene il proprio lavoro, cui va sommata la tradizionale divisione dei ruoli: gli uomini al lavoro e le donne a casa, soprattutto dopo la maternità. Ecco perché tutte le ricerche puntano il dito in una direzione: il rallentamento nel reddito femminile, il crollo nei tassi di occupazione delle donne, la difficoltà nell’arrivare in posizioni decisionali, tutto questo avviene in maniera esponenziale dopo la maternità.
Uno studio sui dati amministrativi dell’Inps (programma VisitInps) stima l’effetto della nascita di un figlio sulle carriere dei genitori. Dopo venti mesi, le madri prendono circa il 12 per cento in meno rispetto a quanto potrebbero guadagnare se non avessero avuto un bambino. Questa penalizzazione raddoppia fra le donne senza un contratto a tempo indeterminato. Ma ripetendo la stessa analisi per i padri, non emerge alcun impatto negativo sulla carriera lavorativa né sul reddito. Le donne scontano il peso dei carichi familiari, la mancanza di servizi, l’organizzazione del lavoro non flessibile che impediscono a troppe donne di realizzarsi pienamente di fare scelte libere. Gli investimenti pubblici in servizi sociali in Italia sono in ritardo rispetto al Nord Europa, che ha investito fin dagli anni ’50. È ora di investire a nostra volta, perché in questo modo si può creare occupazione giovanile e femminile, e ricchezza per tutti. E’ sorprendente (ma significativo) scoprire che per l’importante testata The Economist, paradossalmente, l’arretratezza italiana in fatto di lavoro femminile ci dà un vantaggio nel fronteggiare la grave riduzione della popolazione in età lavorativa, dovuta alla mancanza di nuove nascite: Siccome “in Italia il tasso di occupazione femminile è molto indietro rispetto a quello maschile – ha scritto The Economist – la popolazione attiva può avere un balzo in avanti se il gap si chiude rapidamente, e se tutti lavorano di più e acquisiscono più avanzati titoli di studio”.