La conversazione: un’arte da riscoprire
Saper conversare è un’arte, da apprendere e sviluppare, valorizzandone la preziosità. Troppo spesso viene sottovalutata, soprattutto dai più giovani. I millennials, a partire dal loro essere nativi digitali, considerano del tutto naturale instaurare rapporti rapidi e istantanei, vissuti spesso con la mediazione dell’online. Eppure è col dialogo vis-à-vis, con i suoi tempi, i suoi ritmi e la sua ricchezza informativa che impariamo a sviluppare l’attenzione, a coltivare l’empatia e a sperimentare il piacere di essere realmente ascoltati.
Sherry Turkle, eminente psicologa del MIT e ricercatrice nel campo dell’esperienza soggettiva della tecnologia, nel suo saggio del 2015 La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale mette in evidenza l’importanza di questa forma di comunicazione, operando una netta distinzione tra connessione digitale e conversazione:
- la connessione digitale è un’espressione che sta ad indicare le interazioni a banda ristretta che definiscono la nostra vita sociale e lavorativa online;
- la conversazione è invece una forma di comunicazione a banda larga, molto più ricca e intensa, che caratterizza gli scambi tra esseri umani nel mondo reale.
La Turkle sostiene che “tra le nostre tante attività, la conversazione viso a viso è quella più umana e che ci rende più umani. Pienamente presenti gli uni agli altri, impariamo ad ascoltare. È in questo contesto che sviluppiamo le nostre capacità empatiche”. Nonostante gli indubbi vantaggi del dialogo, sappiamo bene come non sia sempre facile affrontarlo e condurlo con efficacia, soprattutto quando ci sono questioni spinose da discutere. Per rendere una conversazione realmente produttiva occorre prendersi il giusto tempo; si tratta di una comunicazione ricca di dettagli e sfumature, si svolge più lentamente, richiede un piccolo sacrificio e allena la nostra pazienza. Una conversazione efficace ha come base un ascolto attivo, che si nutre di autentica attenzione verso il nostro interlocutore.
Le nuove tecnologie di cui disponiamo offrono molti strumenti per favorire l’interazione; tuttavia, possiamo riscontrare come le relazioni interpersonali risultino spesso difficili e faticose, nell’ambito personale così come in quello professionale. L’online prende il sopravvento sulle conversazioni faccia a faccia, imponendo nuovi modi di pensare e di esprimersi, di interagire e relazionarsi, di sentirsi parte di un gruppo e vivere la socialità. I giovani, sostiene la Turkle, dicono di aver bisogno di condividere un pensiero o un sentimento per poterlo davvero pensare e sentire. Con questo tipo di sensibilità si corre il concreto rischio di costruire un sé fittizio, basato su azioni che pensiamo possano piacere agli altri, da cui desideriamo e cerchiamo approvazione. In realtà, non facciamo altro che reagire in maniera immediata al mondo circostante, anziché esprimere autenticamente noi stessi. Postare frequentemente sui social network è diventato per molti un atto irriflessivo; a tal proposito la psicologa americana ha coniato l’espressione «condivido, dunque sono», citando il famoso motto cartesiano. L’autrice rileva un dissidio che si scatena in noi tra «il desiderio di esprimere il nostro io più autentico e le pressioni a mostrarci online al nostro meglio». Parallelamente alla nostra identità reale, ne costruiamo una digitale (sostanzialmente virtuale), che possiamo plasmare come più ci piace (e come più ai nostri follower riteniamo possa piacere), esercitando così un attento controllo sulla nostra immagine pubblica.
Nelle interazioni nel mondo offline, invece, non è così semplice avere un perfetto dominio di noi stessi e della situazione in cui ci si trova. La nostra intenzione performativa viene bilanciata da una dose di imprevedibilità, che di fatto è inevitabile. Ci impegniamo a modellare la nostra immagine, cercando di presentarci al meglio, ma la conversazione reale apre all’imprevedibile, da cui può emergere il nostro lato più autentico. Online questa componente di imprevedibilità risulta estremamente ridotta, se non del tutto annullata, poiché il nostro sguardo tende a sdoppiarsi: autori di noi stessi, ne siamo anche spettatori, e ci guardiamo (con narcisistico compiacimento) in un continuo gioco autoreferenziale. Postando online, sacrifichiamo spesso una parte intima e privata della nostra personalità sull’altare della condivisone pubblica.
Dai dispositivi digitali ci attendiamo risposte immediate e, per ottenerle, si arriva anche a porre domande sciocche e superficiali, talvolta anche su questioni impegnative, delicate e complesse. Si ha così l’illusione di un dialogo, per quanto non in presenza e con molti interlocutori contemporaneamente. La conversazione vis-à-vis richiede invece attenzione alle sfumature e ai messaggi impliciti, e questo rappresenta indubbiamente uno sforzo che non sempre siamo disponibili ad affrontare, a causa della costante connessione digitale che accompagna le nostre giornate. Sherry Turkle riporta una serie di episodi ormai ricorrenti nella vita di tutti noi: dalla cena con gli amici dove ad un certo momento ci si ritrova tutti chini sul proprio smartphone per interagire con altri, ai dialoghi interrotti tra genitori e figli per rispondere alla posta elettronica, ad una chat o alle notifiche di un post sul proprio account social. Sono situazioni sempre più frequenti, che rischiano di minare non soltanto le basi dell’interazione umana, ma anche la possibilità di un atteggiamento empatico. “Se c’è un problema da affrontare, preferisco scrivere un messaggio anziché parlare di persona”, è una frase che mi capita spesso di ascoltare, e non soltanto dai millennials. D’altra parte, l’esperienza online offre maggiore protezione, e tenere a bada le emozioni sembra più facile.
Un’altra trappola della connessione digitale risiede nell’illudersi di essere meno soli. In realtà si corre esattamente il rischio opposto. “Oggigiorno desideriamo essere uno accanto all’altro e al tempo stesso altrove”, scrive la Turkle. Al primo sintomo di noia ci si connette per distrarsi. Si ravvisa in ciò una crescente “suscettibilità alla stasi”, per cui i piccoli momenti di noia della vita ci diventano via via più intollerabili: sullo smartphone ci attende sempre un mondo più stimolante, e la sua sola presenza è sufficiente a togliere profondità e coinvolgimento ad una conversazione.
Una connessione digitale costante può inoltre seriamente compromettere la nostra capacità introspettiva. “Prima che arrivassero gli smartphone, trovavamo i nostri silenzi pieni anziché noiosi – scrive la Turkle – ora invece li fuggiamo senza averne nemmeno conosciuto il valore”. Eppure la solitudine, e la noia che ne deriva, se accettate come componenti normali dell’esistenza possono diventare momenti di autoconsapevolezza, apprendimento e crescita.
Secondo Sherry Turkle i nostri comportamenti online possono diventare maggiormente consapevoli, con un salutare ritorno ad alcune abitudini dell’era della pre-connettività. Ri-educare alle competenze comunicative e relazionali tipiche del dialogo può rappresentare un efficace rimedio alla deriva digitale e al vuoto di empatia, in una prospettiva certamente non anti-tecnologica, bensì pro-conversazione. “È ora di mettere la tecnologia al suo posto e recuperare la conversazione”, sostiene con tono deciso l’autrice. Tornare quindi a dialogare, a relazionarsi dal vivo con i nostri interlocutori, ad ascoltare empaticamente, prestando reale attenzione all’altro: si tratta di piccoli ma importanti passi per recuperare e valorizzare le qualità fondamentali che caratterizzano la nostra esperienza di essere umani.