Una giornata nella Zona rossa del Covid-19
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La pandemia da Coronavirus è una situazione tanto nuova quanto controversa. Ciò che arriva attraverso giornali e media è un racconto sporcato, ogni nuovo racconto si addensa di un particolare, finché non si arriva al punto della confusione. Tale narrativa rischia di creare figure e ruoli idealizzati, immaginifici, spesso attorno a chi sta cercando di soccorrere chi ne ha bisogno. Senza ombra di dubbio ciò che spinge questi uomini e donne a fare il proprio mestiere è la possibilità di aiutare chi è in difficoltà. Tuttavia infermieri e medici occupati tra terapie intensive e nuovi reparti sono prima di tutto uomini che sudano nelle loro tute, che arrivano stanchi la sera, con il cervello talvolta colmo di preoccupazioni per l’incolumità dei cari. Sapere questo normalizza la figura dell’eroe o, all’estremo opposto, aiuta a non renderlo un untore.
Così ho chiesto a Leandro Buscema, infermiere di 24 anni, siciliano trapiantato a Roma, che ha deciso di trasferirsi proprio in Lombardia, a Busto Arsizio, nel primo reparto Covid d’Italia.
Cosa ti ha spinto da Roma a trasferirti nella “zona rossa”?
Spirito di servizio. La nostra professione, come quella di chi lavora nell’informazione, continua nonostante i pericoli, anche a costo di affrontare l’epidemia. Volevo aiutare le persone contagiate, ma mi sembrava curioso sapere cosa si provasse a lavorare nella zona rossa. Fa parte del mio lavoro aiutare il prossimo, ma anche conoscere le situazioni cliniche nuove e sapere come affrontarle al meglio.
Il pensiero di poter lavorare in una zona così pericolosa ti aveva creato delle preoccupazioni?
Certamente e non solo per me stesso. Facendo già una professione rischiosa a Roma, ho deciso di spostarmi anche per non contagiare il mio coinquilino, la mia ragazza e i suoi affetti. La vita qui è più protetta: dal reparto torno in un appartamento con un mio collega infermiere, già esposto per lavoro a rischio, così mi sento meno preoccupato di contagiare qualcuno a me caro. Le pressioni sono state tante anche da casa per tornare in Sicilia ma non mi son sentito di tornarci.
Come si svolge tecnicamente la giornata di un infermiere nella zona rossa?
Mi sarebbe piaciuto tanto lavorare nei reparti di emergenza, come terapia intensiva o pronto soccorso. Io lavoro nel reparto Covid che non tratta diciamo altre malattie ma solo pazienti con la patologia specifica, o sospetti Covid in attesa di diagnosi certa. La differenza è soprattutto di trattamento: nel caso di arrivi in pronto soccorso dall’esterno c’è bisogno di capire come trattarli, mentre in terapia intensiva ci sono i pazienti critici ormai sedati. Non bisogna sottovalutare il reparto Covid perché la situazione si può aggravare da un momento all’altro. Pian piano il paziente perde il fiato e si nota la sofferenza del paziente che non ha più muscoli per respirare, è un vero sfinimento polmonare.
Ci sono delle specifiche?
È un reparto diverso, in cui non eravamo abituati a lavorare. La cosa più faticosa è restare vestiti durante le attività con i dispositivi di sicurezza: tuta, tre paia di guanti (uno pulito, il secondo incerottato sull’orlo della tuta e il terzo che cambiamo da paziente a paziente) e mascherina. Perdi la sensibilità tattile: fare un prelievo o posizionare un accesso venoso risulta più complicato e rispetto alla divisa abituale le tute riducono la mobilità. Il lavoro risulta più duro, specialmente con l’avvento dell’estate. Portiamo anche una visiera che si appanna spesso e dà grosse difficoltà visive.
Quando ho iniziato a marzo i pazienti più anziani venivano anche intubati. Nell’ultimo periodo invece, viste anche le situazioni delle terapie intensive, non venivano più intubati. Gli anziani occupano quel posto quindi per tantissimo tempo. In reparto abbiamo una parte chiusa con i pazienti e usiamo i dispositivi tecnici; un’altra parte pulita, disinfettata, che non deve essere infettata dai pazienti dove però ci sono i nostri colleghi.
Quali sono quindi le difficoltà maggiore di trattare pazienti con questo virus?
Non possiamo prevedere la complicazione clinica. Fortunatamente ti lascia un po’ di tempo questa malattia, ma non troppo; riesci tuttavia a capire più o meno in tempo quando il paziente sta per peggiorare. Per ogni paziente valutiamo la saturazione d’ossigeno e la frequenza respiratoria. La difficoltà respiratoria è il segnale che ci spinge a intervenire in modo tempestivo, chiamando i rianimatori che valuteranno se è necessario intubare il paziente o meno.
Quali sono le problematiche sociali per essere un infermiere impegnato nella zona rossa?
Sono partito da Roma con le ovazioni. Siamo arrivati in un altro periodo in cui essere un operatore sanitario è quasi uno stigma. Lo notiamo spesso io e i miei colleghi che al supermercato, o in luoghi sociali differenti, dire il nostro mestiere a volte è rischioso. Penso a volte che la gente possa vederci \come degli untori.
Come avete vissuto questo periodo in prima linea? Qual è l’umore tra colleghi?
Fortunatamente sono capitato con colleghi veramente molto in gamba. Mi hanno accolto bene. Ma la fatica e la preoccupazione nelle loro facce le ho percepite sin subito. Dal momento però in cui il numero dei guariti è salito, l’umore generale è cambiato. Sento che quando un paziente guarisce, o viene dimesso, sono più felice rispetto ad altri guariti in passato. Non per sminuire, ma in questo periodo se il paziente torna a casa mi rende più soddisfatto perché siamo riusciti a combattere una malattia nuova, che non ha ancora un vaccino, rantolando nel buio cercando una cura e una terapia. Più di una volta i pazienti ci hanno salutato ci hanno fatto le feste quando sono andati via. La loro felicità vale più di ogni altra cosa.
Come pensi si evolverà la situazione?
Stiamo notando che ci sono risultati, buoni numeri. Con la Fase 2, e l’apertura parziale delle attività, ho paura che i contagi possano ritornare a salire. I contatti possono portare a nuovi casi. Tuttavia, in ospedale sono migliorate un po’ di cose anche nella gestione dei pazienti. Io lavoro nel primo reparto creato appositamente per Covid e si chiama Covid1. Il quinto reparto Covid, che fortunatamente è stato chiuso perché ci sono molti meno pazienti, [ndr. ne sono rimasti solo due] è organizzato molto meglio rispetto il nostro perché si basa sull’esperienza degli altri reparti Covid precedenti. La gestione infermieristica si è definitivamente organizzata ed è positivo per eventuali ulteriori ondate o picchi di ritorno, e la situazione potrebbe essere meno tragica rispetto all’inizio dell’epidemia. Conosciamo maggiormente complicanze e caratteristiche della malattia, la sappiamo riconoscere, la testiamo. Spero, infine, che riusciremo a trovare un vaccino entro l’autunno, ho il timore che possa ritornare nella prossima stagione fredda.
La vita dopo l’emergenza coronavirus: le prime tre parole che ti vengono in mente.
Protezione, perché continueremo a proteggerci anche se ricominceremo a uscire e lavorare. Abbracci, una cosa così comune manca dalle nostre vite da un sacco di tempo. Infine, speranza.
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