Inclusione sul lavoro, il punto di partenza verso una società equa e matura
Quello dell’inclusione è un tema delicato e ciclopico, che deve essere affrontato a partire da un’importante consapevolezza: il verbo che stiamo usando per descrivere questo fondamentale tassello evolutivo della nostra civiltà è inappropriato e quasi sempre lo è anche l’approccio.
Includere, nel senso in cui dovrebbe essere inteso, non dovrebbe infatti significare concedere l’accesso o la partecipazione a chi in precedenza era escluso. Questa condizione è il mero effetto di una mentalità discriminatoria, non la sua causa, e lavorare sugli effetti non consente di risolvere i problemi, ma soltanto di mitigarne le conseguenze.
Per risalire alla causa, ovvero al motivo per cui la nostra società è ancora oggi poco o per niente inclusiva, bisogna rimuovere gli schermi di ipocrisia dietro i quali ci siamo sempre nascosti e far posto alla cruda essenza dei fatti: escludiamo per ignoranza, per mancanza di informazioni e di conoscenza e perché non siamo in grado di comprendere che non esiste uno spettro all’interno del quale si può essere considerati normali o normodotati, ma un infinito caleidoscopio di persone, tutte diverse tra loro, che hanno pari dignità e valore. Un valore che può emergere e realizzarsi soltanto se l’organizzazione della nostra società non mette limiti, paletti e ostacoli al di fuori di tale spettro, che è del tutto arbitrario.
Oltre a questo dobbiamo considerare che nessuna civiltà può evolvere davvero se non comprende l’importanza di tutte le persone che la compongono e non garantisce pari dignità e opportunità a tutte le diversità e all’unicità di ognuno, riconoscendone il valore e consentendo che esso si esprima e si realizzi pienamente, ciascuno secondo le proprie possibilità, caratteristiche, condizioni e inclinazioni.
Quando eravamo bambini questo concetto ci era spudoratamente chiaro; ogni volta che si facevano le squadre per giocare a qualsiasi cosa, i due capitani sceglievano i compagni in funzione della loro abilità (già nota o presunta che fosse) lasciando per ultime le schiappe, i grassoni, quelli troppo magri e deboli da non finire in terra ogni minuto e quelli che parenti o maestre imponevano di far giocare.
È questo che facevano i ragazzini fino all’avvento dell’era del politically correct, e non se ne vergognavano affatto. Oggi qualcuno giustamente li rimprovera pesantemente quando usano certe espressioni e fanno determinati ragionamenti, ma loro le idee le hanno chiarissime: se le persone più e meno abili sono divise equamente e se sono messe nella condizione di giocare al meglio, allora si può lottare alla pari e vincere. Poi magari capita pure che il magrolino di turno non soltanto non cada ogni due per tre, ma la metta anche dentro o che quello grassoccio e insospettabile faccia dei tiri micidiali, ma sia come sia la sostanza resta la stessa: includere significa riconoscere senza ipocrisia le abilità e i limiti di ciascuno, permettendo a tutti di mettersi in gioco e di fare la propria parte. Aggiungendo valore al gruppo, non limitandolo.
Includere davvero vuol dire riconoscere l’importanza di ogni diversità all’interno di un tutto in cui ciascun tassello è altrettanto fondamentale e sinergico. Per farlo non bastano leggi, regole, quote o incentivi, ma occorre sgomberare il campo da un gravissimo errore: includere non significa offrire un’opportunità a chi con le proprie forze e capacità non sarebbe in grado di ottenerla, ma riconoscere che ciascuno può dare il proprio contributo e che l’unione delle differenti abilità di ciascuno non rallenta né ostacola né zavorra il gruppo, ma lo rende più forte e compatto, più consapevole e più capace di affrontare qualsiasi sfida.
Una civiltà matura non si fonda infatti sulla tutela della fragilità, ma nasce dal rifiuto di idee e definizioni fuorvianti e menzognere. Siamo tutti diversi, tutti fragili, tutti altrettanto bisognosi di un contesto in cui esprimere noi stessi per quello che possiamo, ma per fare questo dobbiamo ripensare il nostro modello sociale e trasformare l’antica piramide sociale in una nuova e più potente forma: non più statica, non più divisiva, non più discriminatoria.
Le aziende che stanno percorrendo questa strada nel modo giusto si sono sbarazzate di definizioni come inclusione o categoria protetta, ma hanno invece riconsiderato i loro spazi, i loro strumenti, i processi, le modalità, le tempistiche e gli orari di lavoro divenendo accessibili e inclusive by design, prive di barriere non soltanto nell’architettura degli uffici e degli spazi, ma prima di tutto nella loro visione, concezione e organizzazione, che ovviamente ne hanno beneficiato.