Il vero nemico non è il fallimento, ma la paura di fallire
In altre società, altre culture ed economie fallire non è considerato un dramma e raramente porta con sé conseguenze catastrofiche, come invece spesso succede qui da noi, in Italia. Per noi, infatti, “fallire è un po’ come morire”, tanto che anche quando questo avviene senza portare con sé pesanti strascichi di tipo economico legale, si fa di tutto per insabbiare il più possibile la cosa e per far sparire qualsiasi riferimento a questo disonore, che si tratti di un evento andato male o di una qualsiasi iniziativa o attività che non è andata nel verso giusto.
Ovviamente quando di mezzo c’è un’impresa, dei dipendenti, dei fornitori e dei debiti cui far fronte non è per niente semplice mettere tutto sotto traccia, ma la verità è che questo è, in ogni caso, l’atteggiamento più sbagliato che si possa tenere. No, il fallimento non è il peggiore degli incubi, ma una delle infinite possibilità che ci troviamo davanti, ogni volta che facciamo qualcosa. “Chi non fa non falla”, recita un vecchio adagio, ma il problema è che non esistono soltanto le opzioni più estreme, fallimento e successo, ma moltissime altre gradazioni e tinte, cui il nostro atteggiamento radicale non riesce a dare senso e dignità.
Non c’è solo farcela o soccombere, nella vita come nel lavoro. Un Paese di tifosi come il nostro, tuttavia, riesce a gestire solamente due sole condizioni: vittoria e sconfitta, bene o male, positivo o negativo. “Hai fallito, non vali nulla” sembra l’unico punto di vista possibile, ma questa impostazione nasconde un’incapacità cronica di valutare le cose per quello che sono e per quello che portano con sé, oltre che per le loro conseguenze.
Senza entrare in controverse questioni di tipo psico-sociologiche, appare di tutta evidenza che, in questo come in molti altre questioni, ci sono notevoli distorsioni e falle nell’analisi del nesso causa-effetto che determina qualsiasi aspetto delle nostre esistenze. Quando ci si trova di fronte a un fallimento di qualsiasi genere, infatti, la sola cosa che si dovrebbe fare è un’analisi oggettiva delle sue cause; una lucida disamina che sappia mettere in evidenza le motivazioni, gli effetti e le conseguenze, invece che limitarsi a puntare il dito contro il presunto artefice dell’insuccesso. Quel dito, nella maggior parte dei casi, è puntato contro l’imprenditore di turno, che da quel momento in avanti sarà additato come un fallito e difficilmente troverà nuove opportunità e occasioni. A meno che il suo fallimento non sia parte, come talvolta purtroppo accade, di una disinvolta strategia di speculazione, ovviamente.
Soffermiamoci però sul nesso causa-effetto. Nello scenario attuale chi decide di mettere in piedi un progetto o di lanciare una nuova attività ha solamente due scelte:
- cercare di farcela con qualcosa che già esiste, con altissime probabilità di fallire, a meno che non abbia davvero la capacità di mettere in campo un plusvalore altissimo;
- lanciare qualcosa che ancora non esiste, un progetto completamente nuovo che dovrà lottare in modo furibondo, per farsi conoscere e apprezzare e per imporsi, correndo grandi rischi e… con altissime probabilità di fallire.
Ovviamente nel mezzo ci sono infinite altre sfumature, ma di base fare impresa nel nostro tempo significa sostanzialmente questo: assumersi un grande rischio e correrlo con coraggio e determinazione. Sia chiaro, questo non giustifica nessuno e non alleggerisce le responsabilità di un imprenditore, in caso di fallimento, ma se non ci poniamo nella prospettiva giusta saremo sempre e soltanto i censori di noi stessi o degli altri, pronti a puntare il dito e a mettere all’indice le persone, i loro sogni e il loro coraggio.
Coraggio, passione, ambizioni e voglia di fare che vengono sempre e comunque compensate, quando si getta il cuore oltre l’ostacolo e si affronta il rischio. Anche in caso di fallimento. Senza uno o più fallimenti alle spalle, la maggior parte di quelli che oggi indichiamo come imprenditori di successo non sarebbero andati lontano e non avrebbero probabilmente fatto le grandi cose che noi conosciamo, perché fallire significa anche guardare avanti con una consapevolezza nuova.
Pensate ai gatti, ad esempio. Per loro non esistono mobili impossibili da scalare o salti impossibili da spiccare, ma prima di arrivare in vetta ad una libreria o di saltare da un muro all’altro possono schiantarsi più e più volte, cadendo sempre in piedi ma non per questo senza rischi e senza la paura di farsi male. I gatti cadono, sbattono la pancia e il muso, ma ogni volta si rialzano e a quel punto sanno per certa una cosa fondamentale: per farcela ce ne voleva di più e quel di più da qualche parte deve sicuramente esserci, perché il fallito non è chi sbaglia e sbatte il muso, ma chi dopo aver sbattuto il muso non si rialza e non ci riprova con maggior convinzione.
Fallire è dunque il prerequisito fondamentale del successo? Probabilmente no, ma ben pochi successi sono stati realizzati in modo lineare e senza nessun intoppo, piccolo o grande che fosse, fallimento compreso. Fallire significa sostanzialmente imparare sulla propria pelle quanto sia possibile andare a fondo prima di sprofondare definitivamente, incagliandosi sul fondale come un sottomarino in avaria, destinato a rimanere lì per sempre. Con un grande vantaggio, però: in quasi tutti i casi da quel sottomarino si può uscire e tornare in superficie, per rielaborare questa esperienza drammatica alla luce del sole e tornare ad immergersi poi con una consapevolezza nuova e con una grande esperienza, che chi non ha mai fallito non può avere. Il nemico non è dunque il fallimento, ma la paura di fallire, che ci spinge a volare troppo basso e a tenere stretto in mano il cordino del paracadute, invece che governare l’aereo e spremere il massimo delle sue prestazioni, volando più in alto degli altri e guardando le cose con una visione d’insieme, piuttosto che con la lente d’ingrandimento.