Il lavoro del futuro? Sarà basato sull’empatia
L’empatia come valore aggiunto nel contesto professionale dei prossimi anni. Come approfittarne?
Come sarà il mondo del lavoro fra 30 anni? A questa domanda, ovviamente, non è per nulla facile dare una risposta esaustiva. Quale importanza rivestirà il contributo umano, e in particolare l’empatia, in un mondo in cui l’intelligenza artificiale e la robotica produrranno cambiamenti sostanziali in ogni contesto professionale? Anche a tale quesito non è immediato offrire una risposta. D’altra parte, sulla natura e sulla portata dei cambiamenti promossi dalla tecnologia sembra, al momento, non esserci uniformità di pensiero tra analisti, economisti e sociologi.
C’è chi ritiene che entro una ventina di anni vi saranno centinaia di milioni di persone sostanzialmente superflue da un punto di vista professionale. Altri sostengono che l’automazione, nella sua irreversibilità, è e continuerà a essere un fenomeno positivo a livello sociale, in quanto genererà nuove opportunità professionali e nuovi posti di lavoro, garantendo un livello di prosperità maggiore e diffuso. Ci sono anche coloro che, come l’economista canadese Nick Srnicek, si esprimono in favore di un’economia pienamente automatizzata, che porterebbe a liberare la società dalla fatica del lavoro e al contempo a produrre una ricchezza crescente per tutti.
Vantaggi e rischi dell’automazione
A partire da tali considerazioni, è possibile notare come si stia generando un senso di crescente inquietudine per i destini del nostro contesto sociale: infatti, se soltanto una ristretta cerchia di persone svolgesse lavori qualificati e interessanti, e la maggior parte degli individui fosse relegata a lavori banali e sottopagati, o fosse addirittura estromessa dal mercato del lavoro, la situazione sociale globale ne potrebbe risentire in maniera significativa. Nel saggio La nuova rivoluzione delle macchine, i due economisti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee sostengono che in un mondo sempre più digitalizzato e automatizzato i lavoratori con un elevato livello di istruzione, in grado di programmare e installare robot, risulteranno assai preziosi, mentre i lavoratori con competenze basse o comunque ordinarie saranno tendenzialmente espulsi dal mercato del lavoro, a meno che non si rendano disponibili per impieghi bassi, precari e molto poco remunerati.
Sono molti i lavori e le professioni che potrebbero, in un futuro non troppo lontano, essere seriamente minacciati dalla rivoluzione dell’intelligenza artificiale: commercialisti, consulenti finanziari, commessi dei centri commerciali, camerieri, tassisti, consulenti di management sono solo alcuni esempi. Un recente rapporto di McKinsey rileva che il 45% dei lavori negli Stati Uniti è a rischio automazione. Certo, si può realisticamente ipotizzare che man mano che alcune mansioni vengono automatizzate, le persone possano indirizzarsi verso lavori differenti. In realtà, occorre seriamente considerare che non tutti coloro che perderanno un posto di lavoro, rimpiazzato da un robot, avranno le conoscenze, le competenze e anche l’attitudine per svolgere una nuova professione tra quelle più richieste dal mercato del lavoro. Questa Grande Ristrutturazione attualmente non sta necessariamente riducendo i posti di lavoro, piuttosto tende a separarli. Come sostiene Tyler Cowen, economista della George Mason University in Virginia, nel suo saggio Average is over, non c’è davvero più spazio per la mediocrità. Tuttavia, mentre Cowen ritiene che nel prossimo futuro a prosperare sarà chi possiede l’abilità di lavorare con macchine intelligenti sempre più complesse, possiamo ragionevolmente riconoscere come questo non sia sufficiente. Nel lavoro del futuro si garantirà un successo professionale anche chi saprà sviluppare l’empatia necessaria per costruire relazioni efficaci, proficue e appaganti, alimentate da elevati livelli di fiducia.
La polarizzazione del lavoro e il ruolo dell’empatia
È possibile immaginare che per quanto la tecnologia continuerà a progredire, non necessariamente renderà inutile l’apporto umano. Almeno non ora, e probabilmente per molto tempo ancora. Se è vero che l’ondata di automazione, innescata dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale, è appena cominciata, è altrettanto vero che altri processi di simile portata hanno profondamente cambiato il mondo del lavoro negli ultimi duecento anni. Agli inizi della prima Rivoluzione Industriale, in Inghilterra molti tessitori qualificati vennero rimpiazzati dalle macchine. Ned Ludd fu a capo di un movimento che riuniva tutti coloro che protestavano contro la meccanizzazione della tessitura. Ancora oggi il termine luddista viene utilizzato in maniera dispregiativa per riferirsi a una persona che rifiuta aprioristicamente il progresso.
È sempre più evidente il processo di polarizzazione nel mondo del lavoro. L’attuale ondata di automazione aumenta la domanda di due macro-tipologie di lavoratori: da un lato, quelli altamente qualificati (in particolare collegati al mondo tecnologico o scientifico), dall’altro quelli di più bassa o addirittura nulla qualifica (che vanno ad alimentare la gig economy). Per quanto concerne i lavoratori di media qualifica (tendenzialmente relegati a ruoli impiegatizi), si tratta di coloro che negli ultimi decenni, con maggiore probabilità, hanno cominciato a scivolare verso la base meno qualificata del mondo del lavoro.
In questo scenario, come garantirsi un futuro professionale soddisfacente, sia dal punto di vista economico che da quello della gratificazione personale? Occorre anzitutto chiedersi quanto il proprio lavoro possa risultare “prezioso”, ossia realmente utile e in grado di apportare un concreto valore aggiunto. Per comprendere quanto la propria professione sia “importante”, potremmo chiederci: quanto valore aggiunto stiamo generando? L’avere ben presente il proprio impatto personale nell’attività professionale, in termini di valore, può rappresentare una concreta garanzia (o per lo meno una seria possibilità di garanzia) sul futuro del proprio lavoro. Il valore aggiunto di qualsiasi lavoro, in un’epoca di dominio tecnologico e digitale, è dato da ciò che caratterizza peculiarmente la nostra realtà di esseri umani. È indubbiamente difficile poter competere con l’efficienza garantita dall’intelligenza artificiale; ma oggi siamo ancora ben lontani dall’avere a disposizione computer e robot in grado di competere con gli esseri umani per ciò che riguarda l’intelligenza emotiva, come l’ha definita Daniel Goleman a metà degli anni Novanta del secolo scorso.
L’empatia: il valore aggiunto del lavoro nel futuro
L’empatia è una caratteristica che ci accomuna in quanto persone, ed è ciò che rappresenterà un reale valore aggiunto in ogni professione in cui l’apporto umano risulterà cruciale e decisivo. Come spiegano sociologi e antropologi, quello umano è un agire prevalentemente culturale, basato sull’interpretazione di simboli e comportamenti, che ci consente di cogliere la realtà in cui viviamo. Come sosteneva l’antropologo statunitense Clifford Geertz, l’essere umano è un animale culturale che si muove con una mappa di significati; in ciò si distingue dall’animale, mosso invece da puri istinti. L’empatia è la qualità che ci consente, in quanto animali culturali, di comprendere lo stato d’animo della persona con cui stiamo interagendo, capire cosa sta provando, sintonizzandosi sulle sue emozioni: questo è un atto prevalentemente culturale, che ci consente di capire come sta reagendo il nostro interlocutore.
Nella complessità dello scenario del lavoro attuale, così incerto e turbolento, l’empatia può concretamente rappresentare un punto di riferimento per creare e sviluppare valore aggiunto. Angela Ahrendts, ex Vice President del retail di Apple, qualche anno fa sosteneva che “tanto più tecnologicamente avanzata diventa la nostra società, tanto più dobbiamo tornare ai fondamentali della comunicazione umana”. E l’empatia rappresenta propriamente uno degli elementi fondamentali di ogni processo di interazione che riguarda gli esseri umani.
La tecnologia sta raggiungendo vette strabilianti, possiamo verificarlo ogni giorno. Ma ad oggi ancora non è in grado di interpretare con esattezza i nostri interessi, le nostre intenzioni, i nostri desideri, i nostri veri bisogni. Ecco un esempio. A tutti noi sarà capitato di ricevere annunci simili a qualcosa che abbiamo appena fatto o ad un luogo che abbiamo appena visitato: cerchiamo un nuovo elettrodomestico online, e subito ci arrivano dei messaggi del tipo “ti può interessare anche questo”; abbiamo cenato in un ristorante e ci compare l’inserzione “potrebbero piacerti altri posti come questo”. Si tratta di un tipo di profilatura basato su un’analisi statistico-algoritmica, che però nulla ci dice su quelle che sono le nostre reali intenzioni. Per indirizzare al meglio le nostre scelte tendiamo ad affidarci al consiglio di familiari, amici, conoscenti oppure di esperti di un determinato settore. Esponendo i nostri interessi e le nostre preferenze ci attendiamo che qualcuno ci ascolti e ci capisca. Ovvero, ci dimostri empatia. Qualcuno che comprenda non solo cosa vogliamo, ma anche le motivazioni che stanno alla base di una nostra scelta; quindi, che sappia cogliere le sfumature emotive che arricchiscono il nostro messaggio.
L’atteggiamento empatico che richiediamo è ciò che rappresenta il valore aggiunto. Probabilmente dovrà passare ancora del tempo prima che qualche tecnologia possa batterci su questo terreno, che è ciò che ci caratterizza propriamente in quanto esseri umani. Il futurologo ed esperto di intelligenza artificiale Hans Moravec ritiene che le abilità tipicamente umane siano quelle che, con minore probabilità, verranno soppiantate dalle macchine. A fronte di ciò, spetta ad ognuno di noi alzare continuamente l’asticella per evitare che la crescente portata tecnologica renda superflue le caratteristiche peculiari della competenza umana.