Il coraggio di guardarci dentro
Non siamo soltanto carne, ossa e cervello. Dentro di noi c’è una dimensione misteriosa e intangibile, che qualcuno chiama coscienza o anima, con la quale dobbiamo necessariamente entrare in contatto, per tuffarci nel nostro io profondo..
Lo facciamo raramente anche se, quasi sempre, ciò che vediamo lì dentro ci sorprende e ci affascina. Cerchiamo emozioni e novità ovunque, non ci stanchiamo di girare il mondo alla ricerca di qualcosa che ancora non conosciamo, ma quando si tratta di guardare dentro di noi troviamo sempre qualcosa di più urgente da fare e procrastiniamo. Eppure è lì che si nascondono molte delle risposte che cerchiamo.
Ce ne accorgiamo, soprattutto, quando lasciamo che un medico guardi dentro il nostro corpo, alla ricerca di eventuali “guasti” da aggiustare; forse soltanto per paura, in quei frangenti, ci sfiora il sospetto che le risposte davvero importanti siano spesso nascoste in quella strana e indeterminata dimensione, che a volte chiamiamo anima e che non esploriamo mai abbastanza.
Molti sostengono addirittura che gran parte dei mali del nostro corpo altro non siano che la materializzazione di risposte, fondamentali e urgenti, che non abbiamo avuto il coraggio di andare a scovare. Altri giurano che una parte importante della cura e della guarigione da molti mali venga proprio da lì e dalla nostra capacità di relazionare la nostra mente e tutto il nostro essere con quella misteriosa ed eterea entità.
L’urgenza di tuffarci dentro di noi
Allora perché ci rifiutiamo spesso di tuffarci in quel mare profondo? Perché tolleriamo l’idea che sia giusto o saggio aspettare che qualche frammento dei relitti, che quell’abisso nasconde, affiori in superficie e diventi qualcosa di improcrastinabile, prima di occuparcene?
Alcuni credono di cavarsela sostenendo che è inutile preoccuparsi per qualcosa che ignoriamo e che probabilmente non emergerà mai, ma ignorano una parte fondamentale del problema: non sempre ciò che affiora è visibile agli occhi e, peggio, non sempre è necessario che quegli insidiosi relitti lascino andare qualche pezzo, per essere concretamente parte dei nostri problemi e della nostra realtà.
Ecco perché in quel mare occorre tuffarsi spesso, con coraggio e con la mente aperta, accettando ciò che siamo e cambiandolo, qualora non ci piaccia. Lasciandoci alle spalle l’errata convinzione che ciò che non vediamo sia invisibile anche agli altri, che spesso invece ci spiazzano, raccontandoci di noi cose che ci ostiniamo a non voler conoscere, o che fingiamo maldestramente di ignorare.
Ma cosa significa guardarsi dentro? Come si fa e a cosa serve?
Un dialogo o un monologo?
“Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”, scrisse alla fine dell’Ottocento Friedrich Nietzsche nel suo “Al di là del bene e del male”. Con il nostro io profondo, le cose non vanno diversamente. È una sorta di gioco di specchi in cui un io senza corpo si confronta con l’io che meglio conosciamo: quello che fatica, soffre, ha fame, freddo, caldo… quello che, sin da bambini, consideriamo il nostro unico io e che ci sforziamo di proteggere, soddisfare e far comunicare e interagire con gli altri.
Oltre a ciò che vediamo c’è però una coscienza più profonda, che dovrebbe farci capire che non siamo soltanto qualche chilo di carne e di ossa, animati da chissà quale energia e collegati a un cervello. La nostra fisicità ci influenza in ogni modo, ovviamente, e non possiamo non ascoltare le sue necessità e le sue indicazioni, ma nessun essere umano è talmente grezzo da non capire che oltra al corpo c’è qualcosa in più e che quel “qualcosa” può dirci molto di noi, se vinciamo la paura di ascoltarlo.
Quando ci riusciamo, immergendoci nella meditazione e lasciando tutto il resto fuori, ci rendiamo conto che non si tratta di un dialogo né di un monologo. Non stiamo parlando, ma stiamo scavando dentro di noi, alla ricerca di risposte che il nostro io profondo non ci darà a parole. Le sue risposte non saranno più che mere percezioni, ma negli anni impareremo a capire quei “non detto”, a vedere in quell’oscurità e in quel silenzio, per trovare bandoli di matasse che ci sembravano impossibili da districare e conoscere meglio qualcosa di noi che non è scritto nella carne, nei lineamenti, negli occhi, ma in una dimensione non fisica e non tangibile.