Esiste buona cultura d'impresa solo se ci identifichiamo orgogliosamente, ogni giorno, con il nostro lavoro
La parola “impresa” è sempre stato un termine utilizzato soprattutto dagli addetti ai lavori. Soprattutto da quelli di età decisamente matura. Mai, un paio di decenni fa, avresti sentito un ventenne parlare di impresa soprattutto in una frase di cui è il protagonista. Ma oggi tutto è cambiato e la parola impresa, specialmente nei giovani, è sinonimo di innovazione, tecnologia, idee e sogni. Nulla di più ambizioso per un concetto così nobile, visto che comunque stiamo pur sempre parlando di lavoro: roba degna di rispetto.
Ma basta pronunciare la parola impresa per sapere di che si tratta? Soprattutto, il concetto di impresa è solo legato al successo, al profitto, all’innovazione tecnologica?
Non posso negare che parlandone spesso, a un certo punto queste domande sorgano davvero spontanee e quando una domanda ti sorge hai quasi la missione di cercare una risposta.
Dunque, se dico impresa, cosa dico? Citando Henry Ford (che di impresa qualcosa ne sapeva) con il suo “Un affare in cui ci si guadagna soltanto del denaro non è un affare” la certezza che nel fare impresa ci sia dell’altro si svela chiaramente.
Citare Ford non è un caso. Tanti dei grandi marchi che vengono dal passato hanno segnato sia la vita dei loro fondatori, sia la storia di intere nazioni. Perché? Non di certo perché una singola azienda, per quanto grande, abbia favorito il PIL di un intero paese.
La risposta ce l’abbiamo con il nostro tanto nominato made in Italy. Una prodotto made in Italy non ha valore soltanto perché è progettualmente evoluto, oppure tecnologicamente avanzato, o ancora perché è inedito. Un prodotto made in Italy ha valore perché è made in Italy, nasce cioè da una cultura di impresa che ha a che fare con il modo con cui quell’impresa nasce e cresce, con i valori su cui si basa. E questo vale per qualsiasi paese in cui l’impresa è la maggiore leva di mercato.
Quando un’impresa si ispira ai valori, difficilmente fallisce. Diversamente, anche se può arrivare a raggiungere obiettivi economici di rilievo senza rifarsi a dei valori, è anche vero che è improbabile che possa sopravvivere per generazioni o superare la prova del tempo come episodio imprenditoriale esemplare.
Quali sono dunque gli aspetti che avvantaggiano un’impresa che si basa su un modello culturale? Soprattutto esistono modelli di cultura d’impresa? Forse sì, forse no, certo è che a nessun imprenditore è vietato costruirne uno nuovo piuttosto che rifarsi a quelli esistenti. Le imprese sono come le famiglie: tutte uguali ma nessuna è come le altre.
Intanto va considerato un aspetto: se è vero che è l’imprenditore a suggerire la cultura con la quale vuole far crescere la sua impresa, è pur vero che a costruirla saranno anche i suoi impiegati. Questo porta ad ammettere che non c’è differenza di ruolo in un’impresa quando si parla di cultura del lavoro.
Quando un imprenditore tratta con un suo impiegato, crea cultura di impresa; quando sia l’imprenditore che un impiegato si relazionano con un cliente o un fornitore, creano la cultura di quell’impresa. Così come quando due colleghi si rapportano fra loro o nel momento in cui uno di essi parla all’esterno del suo lavoro.
Diciamolo chiaro, ormai parlare male del lavoro che si svolge è un segno distintivo di carattere estremamente negativo: facendolo, una persona è come se non non parlasse bene di sé. E questo vale soprattutto all’interno del proprio ambiente di lavoro. Un collega che parla male di un altro – a volte sperando così di conquistare la fiducia di qualcuno confidandogli i propri pensieri – per prima cosa fa ma a se stesso. Tanto per citare un altro statunitense, David Ogilvy – uno dei padri della moderna pubblicità – sosteneva che “è sempre meglio non parlare mai male di un cliente ad un altro cliente, penserà che lo fai anche di lui”. Stesso vale per i colleghi.
Ma perché molte volte si è portati a parlare male del proprio lavoro? Insoddisfazione si direbbe. Purtroppo questo non rappresenta più una giustificazione. Se c’è un solo lato positivo nella congiuntura economica degli ultimi anni è che ha portato molte persone a doversi affidare al proprio saper fare, alle proprie energie per affrontare il cambio del lavoro dovuto alle contrazioni che molte aziende hanno gestito o, addirittura, alla chiusura dell’impresa per la quale lavoravamo. E queste energie hanno chiamato in causa la capacità di ognuno di sopravvivere valutando le proprie competenze, come dopo una guerra, solo che in questo caso lo scenario non è tranciato dalla distruzione, ma aperto ad accogliere l’iniziativa di chi vede nel lavoro la propria realizzazione. Ed è così che sono nate iniziative autonome, dedicate all’ambiente, alla vita sociale e ad ogni possibile area che offriva una possibilità di inserimento. Insomma, imprese che grazie alla loro cultura, quando l’hanno saputa creare, sono arrivate al successo.
Ma non è necessario aprire un’impresa per fare cultura di impresa, lo abbiamo accennato già. Il nostro lavoro siamo noi, il valore che noi stessi veicoliamo agli altri, che siano colleghi, datori di lavoro, clienti, collaboratori o fornitori. È pensandosi se stessi in questo modo che nasce voglia di imparare e responsabilità nel saper rispondere a una richiesta. In una parola: competenza. E questo porta a creare qualità nei prodotti e nei servizi. Verrebbe quasi da dire che la cultura in un’impresa è la vera unicità che crea profitto. Che link!
Ancora una volta Henry Ford “Abbiamo bisogno di persone brave, non solo di brave persone”. Non è più tempo di scaldasedie o stringibulloni, nessuno cerca più qualcuno per lavorare meccanicamente ma individui capaci di utilizzare la testa a favore di se stessi e della causa per la quale lavorano, l’impresa. Che sia quella propria o no. La cultura di impresa non è distinta in mia e tua, ma è del fare impresa e basta.
Non v’è dubbio che in tutto questo non c’è spazio per chi afferma “sono disposto a fare tutto” perché è come se ammettesse di non saper far niente meglio di altro. In giro si cerca competenza, tanta, e unirsi ad altri che ne hanno vuol dire fare le cose in grande, con la cultura del valore.
Esiste ancora chi afferma “finalmente domani è venerdi” ma, per fortuna, è sempre più frequente incontrare chi aspetta il lunedì per riprendere con energia qualcosa che ha sospeso due giorni prima, carico di ciò che ha collezionato nel week-end con la stessa energia che mette nel lavoro, se stesso.