I tassisti di Londra e la tirannia della comodità
Nel 2008 non era ancora così diffuso il navigatore satellitare sulle nostre automobili. Viaggiando spesso in auto per lavoro, stavo valutando di acquistarne uno. Ma nell’ottobre di quell’anno, un singolare episodio mi fece cambiare idea.
In un tiepido e assolato tardo pomeriggio autunnale mi trovavo in Toscana, dove il giorno successivo avrei tenuto un corso di formazione. Arrivai per tempo in hotel a Migliarino, piccola frazione di Vecchiano, un comune a pochi chilometri da Pisa. La sera avrei cenato con due manager dell’azienda cliente, i quali mi avrebbero affiancato nella conduzione del training del giorno seguente. L’appuntamento era per le 19.00, ma arrivarono alle 22.00. Tre ore di ritardo! Come mai? Partivano da Torino, non così lontano, quindi immaginavo ci dovesse essere stato qualche intoppo in autostrada o lungo il percorso. In realtà, il manager che era alla guida mi diede questa risposta: entusiasta di utilizzare il suo nuovo navigatore, aveva digitato il nome della destinazione, Migliarino appunto, ma quello sbagliato! Ossia un piccolo borgo della provincia di Ferrara, da tutt’altra parte rispetto alla piccola frazione vicino Pisa dove ci trovavamo. Trattandosi di un comune, fu la prima opzione offerta dal navigatore, mentre la frazione del comune di Vecchiano nemmeno veniva contemplata. Mi venne quindi naturale chiedere: “Seguendo le istruzioni del navigatore, ti sei accorto che ti stava indirizzando verso la Romagna e non la Toscana, verso l’Adriatico e non il Tirreno?”. La risposta, sintetica e lapidaria: “Certo, mi sono accorto, ma fidandomi della tecnologia ho acceso il navigatore e ho spento il cervello”.
Ancora oggi, quando mi si riconosce abilità nell’orientarmi in città per me nuove, ricordo con piacere questo simpatico episodio di tanti anni fa. Certo, sbagliare strada è sempre possibile, ma considero una piacevole sfida provare ad esercitare la capacità di orientamento. Ciò detto, certamente non sarei in grado di guidare un taxi a Londra, e non soltanto per la difficoltà di affrontare la guida a sinistra, non avendone abitudine. Di fatto, guidare un taxi a Londra non è per tutti. Per ottenere la licenza di guida di un black cab occorre infatti superare un esame estremamente impegnativo, chiamato non a caso “The Knowledge”: si tratta di memorizzare i 320 percorsi base della città, all’incirca 25.000 strade nel raggio di solo una decina di chilometri. I tassisti londinesi sono famosi in tutto il mondo per la loro abilità nel condurci, nel più breve tempo possibile, in ogni angolo della città, senza l’aiuto del navigatore.
Una ventina di anni fa la London University pubblicava una ricerca in cui si mettevano a confronto le scansioni cerebrali dei tassisti con quelle di persone comuni. Ne emergeva che nei tassisti l’area del cervello responsabile della memoria spaziale, ossia l’ippocampo, aveva dimensioni maggiori. In sostanza, nei due o tre anni passati a preparare l’esame, il loro cervello si era realmente modificato.
Qualche anno dopo, nel 2006 la neuroscienziata Eleanor Maguire ampliava quella ricerca, confrontando i cervelli dei tassisti con quelli dei conducenti di autobus, simili per età, livello di istruzione e stile di lavoro, con l’unica ma rilevante differenza che soltanto i tassisti dovevano orientarsi e memorizzare una complessa rete di strade, mentre gli autisti dei bus avevano percorsi più semplici, in quanto fissi e prestabiliti. Lo studio confermava che i tassisti erano provvisti di un volume di materia grigia maggiore nell’ippocampo medio-posteriore. Un’ulteriore indagine ha portato la Maguire e altri ricercatori a scansionare il cervello di tassisti inesperti, seguendoli durante tutto il periodo del loro apprendistato. Coloro che superavano l’esame, dopo molti mesi di addestramento, presentavano entrambi gli ippocampi (quello di destra e quello di sinistra) più grandi rispetto a chi non l’aveva superato.
Queste interessanti ricerche dimostrano che le nostre attività mentali ripetute, in particolare quelle utilizzate nel nostro lavoro, producono dei cambiamenti a livello cerebrale. Uno dei massimi esperti mondiali sul tema della plasticità del cervello è Michael Merzenich, professore di neuroscienze presso la University of California. Fu uno dei primi a studiarla, già nel 1968. Grazie ai suoi lavori pionieristici, oggi sappiamo che il cervello umano non è plastico soltanto durante le prime fasi della vita, ma continua ad esserlo negli anni. Il concetto fondamentale della neuroplasticità risiede nel fatto che tutte le esperienze che facciamo vanno a modificare strutturalmente il nostro cervello, la cui peculiarità non risiede tanto negli 87 miliardi di neuroni che lo compongono, quanto nelle numerosissime connessioni che le cellule nervose creano fra loro, modificandosi continuamente a partire dalle nostre esperienze.
Le trasformazioni frutto della plasticità del cervello sono state studiate in molte attività: atleti, musicisti professionisti, artisti, studenti di medicina e matematica sono solo alcune delle categorie prese in esame, in cui si sono riscontrati degli effetti in aree cerebrali diverse a seconda della competenza mentale maggiormente utilizzata in quella specifica attività. La cosa interessante, quindi, è che se usiamo con costanza una determinata abilità mentale, il nostro cervello si modifica, rimodellando alcune sue aree. Se, tuttavia, abbandoniamo l’uso di alcuni circuiti neurali, inesorabilmente li perdiamo. E una volta che il nostro cervello si è riorganizzato in nuovi percorsi, risulta difficile tornare indietro.
Se oggi, con i nostri smartphone e in generale con tutta la tecnologia di cui disponiamo, tutto è a portata di click, la tirannia della comodità (come la definisce Tim Wu, professore della Columbia University di New York) prende il controllo delle nostre vite, insinuandosi in ogni piega del nostro quotidiano. Quando tutto è facile, semplice, immediato, estremamente disponibile, di fatto non sembra esservi alcuna necessità di esercitare uno sforzo.
Il nostro cervello, tra le altre funzioni, è costruito per guidarci nell’esplorazione dell’ambiente esterno. Ma se, per raggiungere un qualsiasi luogo, attendiamo passivamente le istruzioni di Google Maps, accade spesso che nemmeno sappiamo dove ci troviamo; così, il nostro cervello non è più chiamato ad impegnarsi a ricostruire mentalmente lo spazio, cercando di orientarvisi. Ogni volta che mi trovo in auto verso una destinazione nuova, chi è con me mi chiede, con un certo stupore, come mai non metta in funzione il navigatore. La mia risposta usuale consiste nel ribadire, in primis a me stesso, di voler mantenere acceso il cervello, piuttosto che seguire pedissequamente le istruzioni dettate dalla voce metallica (che tra l’altro trovo particolarmente fastidiosa!).
Se smettiamo di utilizzare alcune particolari abilità mentali, le reti neurali che vi sono associate tenderanno ad indebolirsi. Se non ci preoccupiamo di tenere allenata la nostra mente nelle varie abilità che la riguardano, queste progressivamente diventeranno più “pigre”. E qualora vi fosse necessità di riattivarle, occorrerà tempo e fatica per riuscire a portarle ad un livello di buona efficienza. Le tecnologie che utilizziamo ogni giorno senza dubbio ci semplificano la vita, ma occorre essere consapevoli che ogni volta che deleghiamo ad uno strumento esterno una funzione tipicamente umana (come ad esempio orientarsi tra le vie di una città), stiamo contemporaneamente indebolendo una capacità cerebrale. La lezione che possiamo trarre dai tassisti londinesi è che rinunciare (almeno ogni tanto) ad una tecnologia, al fine di impegnare il cervello in uno sforzo (per quanto modesto), ci consentirà di tenerlo più allenato e tonico; così che possa essere pronto ogni qualvolta si renda necessaria una determinata abilità mentale per affrontare efficacemente nuove e sfidanti situazioni.