Giornali: tra crisi dell’editoria, infodemia e speranze per il futuro
L’informazione è in crisi?
Sappiamo un sacco di cose. O crediamo di saperle. Ma non ci fidiamo di nulla e di nessuno. Potremmo chiamarlo il paradosso dell’informazione. Riguarda il giornalismo ma non si limita ad esso e finisce con investire le più importanti istituzioni della società contemporanea. Mai come oggi le persone hanno avuto accesso alle più disparate fonti informative. Eppure, secondo le indagini demoscopiche, meno di un terzo degli italiani ha fiducia nell’informazione televisiva e nei giornali. Un fenomeno che riguarda tutto il mondo. Bizzarro davvero. Ci fidiamo della qualità delle merci offerte da Amazon e della precisione del suo servizio; scarichiamo app e software senza leggere avvertenze; pratichiamo il trading-on-line con la stessa allegra superficialità con cui scegliamo i numeri del lotto. Ma dei giornali non ci fidiamo più.
Lettori e giornali, una crisi di fiducia
Come e perché è accaduto? Una possibile spiegazione è “l’effetto torre d’avorio”. Mentre la digitalizzazione ha stravolto mercati e consuetudini di consumo a tutti i livelli attraverso il fenomeno della distruzione dei mediatori che si interpongono tra chi vende e compra un prodotto o un servizio, il mondo dei giornali si è comportato come se la cosa non lo riguardasse. Concentrati su sé stessi, convinti di appartenere a un mondo intoccabile, giornali e giornalisti hanno pensato di poter continuare ad essere ciò che sono sempre stati: autoreferenziali, poco interessati a confrontarsi con il pubblico dei lettori, tenacemente opachi riguardo al modo in cui una notizia diviene tale. Purtroppo il buon funzionamento della democrazia e della convivenza civile dipende anche (e parecchio) dallo stato di salute dell’informazione. Se i giornali sopravvivono a stento o se campano di clickbait, il rischio è davvero grande. Quale sarà il futuro dei giornali?
L’informazione al tempo del Covid
Un esempio drammatico di ulteriore perdita di peso e di valore del giornalismo italiano l’abbiamo avuto dall’informazione al tempo del Covid. Cos’è accaduto? Nelle redazioni dei giornali e delle televisioni si è iniziato da un giorno all’altro a parlare di pandemia rincorrendo le notizie e gli avvenimenti sempre più drammatici di quei giorni. La pandemia, il virus, le opinioni dei diversi esperti ingaggiati dalle diverse testate giornalistiche, hanno iniziato a fluire copiosamente in un continuo accavallarsi di pareri, visioni, previsioni, spiegazioni, senza che questo flusso fosse governato da una scelta di fondo coerente derivante da competenze scientifiche di cui, evidentemente, le redazioni erano prive. Se non conosci, come fai a distinguere il vero dal falso e il vero dal verosimile? Il giornalismo non è come invece a torto si suppone, l’arte di interpretare i fatti bensì il mestiere di comunicare un fatto, un avvenimento, una cosa che è accaduta. Solo dopo, ci sono le interpretazioni e le opinioni. Senza notizie verificate e credibili non c’è futuro.
Un colossale iceberg chiamato infodemia
Questo disastro l’hanno poi chiamato “infodemia”, termine mutuato dall’inglese che significa “perversa diffusione rapida e di vasta portata di informazioni accurate e imprecise su qualcosa come una malattia”. Notate, informazioni al tempo stesso “accurate” e “imprecise”. Un cocktail micidiale che ha incentivato l’ansia e ingigantito la paura. Il risultato ultimo è stato l’ulteriore perdita di credibilità del sistema dell’informazione. Nel momento dell’emergenza, nei giorni della clausura e della paura la “cucina delle emozioni” ha preso il posto dell’informazione ragionata, della divulgazione attendibile. Invece di assumere un ruolo di guida attiva e consapevole nel processo di formazione delle opinioni, i giornali hanno alzato bandiera bianca e si sono arresi. Ma a chi spetta se non ai giornali l’onore e l’onere di contribuire alla creazione di una cultura libera e condivisa? Quale futuro per i giornali?
Il costo della qualità
Inutile nasconderlo, fare qualità costa. I giornali, sempre più in difficoltà per via delle tirature in caduta libera, sono di fronte a un problema che al confronto l’enigma della Sfinge è un gioco da ragazzi. Il crollo delle vendite, la sparizione delle edicole, impone il taglio dei costi, in particolare del costo del lavoro. Purtroppo, la qualità di un giornale – la cui formula è: ricchezza dell’offerta informativa x accuratezza delle informazioni + aggiornamenti e tempestività – dipende dalla qualità delle redazioni e dei collaboratori. Difficile se non addirittura impossibile mantenere i lettori e attrarne di nuovi se non c’è qualità. Il lettore che si nutre di junk food informativo gratuito non è disposto a pagare per una merce di cui non comprende il valore; mentre il lettore così detto forte, è esasperato sia dalla piaga dei refusi segno di un lavoro raffazzonato, che dalla perdita di attendibilità e autorevolezza.
Pubblicità o abbonamenti?
Pubblicità e/o abbonamenti: sono i due percorsi praticati dalle imprese giornalistiche per generare ricavi dalle testate on-line. Sono due strategie difficilmente abbinabili. Gli inserzionisti privilegiano testate con grandi numeri di lettori oppure comunità caratterizzate da interessi specifici; i ricavi da abbonamento implicano contenuti di qualità tale da giustificare l’acquisto. Inutile sottolineare come l’equilibrio tra i due sistemi (abbonamento + pubblicità) sia difficile da mantenere. La modalità “gratuito con pubblicità” richiede contenuti facili in grado di generare un alto numero di click; ma se si spinge su questo pedale si finisce con l’allontanare il lettore che cerca qualità. Si deve infine ricordare che il produrre contenuti originali ed esclusivi richiede risorse economiche importanti, infinitamente superiori a quelle dei contenuti così detti “acchiappaclick”. Il fatto poi che molti lettori digitali utilizzano sistemi che impediscono il caricamento delle pagine pubblicitarie (i così detti advblocker) è una realtà che i gestori digitali dei giornali on-line sanno benissimo. Ma questa è un’altra storia.
I giornali del futuro
Giunti a questo punto, sono certo abbiate compreso che chi scrive è innamorato perso dei giornali. Con una grande nostalgia per quelli di carta, la famosa “mazzetta” che l’edicolante di fiducia preparava la mattina. Lo spoglio dei quotidiani era l’evento che suggellava le mattine della domenica o dei giorni di festa, quando il crocchiare della carta faceva da controcanto al fischio della caffettiera sul fuoco.
Ci saranno ancora giornali su supporto cartaceo? Secondo David Remnick direttore del New Yorker, uno dei più prestigiosi periodici al mondo, la carta troverà un suo ruolo, una sua nuova dimensione, affiancherà il digitale e non scomparirà. Ma stiamo parlando di un periodico che ha abbonati in tutto il mondo grazie a due fattori: l’inglese, nuova lingua universale come lo fu il latino, e la maniacale ricerca della qualità. Qualità degli autori, ai quali a volte sono concessi mesi per portare a termine un reportage, un’indagine o semplicemente comporre un saggio sotto forma di articolo, e (straordinaria) qualità della redazione nella quale lavorano numerosi fact checker, giornalisti specializzati nella verifica delle informazioni e delle fonti di ogni pezzo pubblicato dal loro giornale.
Come dovranno essere i giornali del futuro è quindi semplice a dirsi, assai meno a farsi. Recuperare un rapporto autentico e diretto con i lettori; analizzare i desideri e i bisogni, che notoriamente sono due cose diverse, di chi lettore non è ancora, e di conseguenza cercare di acquisirlo. Infine perseguire la qualità con la stessa passione con cui un bambino rincorre un pallone. Solo il piacere per il lavoro ben fatto garantisce che quel lavoro sarà davvero ben fatto, ancora e poi ancora, un giorno dopo l’altro. Perché un buon giornale, un giornale ben pensato e ben scritto, è il miglior alleato della libertà.