Fuga dei cervelli: i ricercatori che restano non sono i peggiori, anzi.
“Fuga dei cervelli”, una formula tanto sgradevole quanto vittima di numerosi fraintendimenti e interpretazioni spesso indegne perfino del bancone di un bar. Un’analisi firmata dal prestigioso editore Elsevier, uno dei più importanti al mondo per il comparto scientifico, prova a mettere ordine al tema e sfatare qualche luogo comune. Lo fa mettendo sotto la lente un significativo campione di 33 mila i giovani ricercatori italiani under 35 che abbiano maturato nel corso della loro carriera almeno un’esperienza all’estero: il 20% ha lasciato il paese per imboccare un percorso accademico all’estero, è vero, ma chi in seguito è rientrato sfoggia un livello mediamente più alto di chi sceglie di rimanere. La sintesi? All’estero ci sono più chance, più possibilità di carriera e più soldi, non c’è dubbio, ma non è affatto fondata l’idea che in patria rimangano i peggiori. Anzi.
Il punto di partenza: un milione di italiani all’estero in 10 anni
Certo il punto di partenza è nebuloso: i dati Istat relativi al 2018 spiegavano che quell’anno 117mila italiani avevano lasciato il paese. Fra questi, 30mila erano laureati. Ma questo significa molto poco: non tutti i laureati sono ricercatori in carriera, anzi. Il flusso in uscita appartiene per altro a un fenomeno purtroppo consolidato nell’ultimo decennio, che ha cancellato dalle anagrafi nostrane circa un milione di italiani. Secondo un’analisi di Neodemos, invece, “su un totale di circa 7.5 milioni di laureati italiani, nel 2020 ne sono emigrati all’estero 31 mila (4.2 ogni mille laureati). L’incidenza raddoppia nella fascia d’età 25-39 anni dove, su 2.6 milioni di laureati, ne sono emigrati quasi 23mila (8.6 ogni mille)”. Si tratta ovviamente di una grave perdita di capitale umano ma, di nuovo, non tutti i laureati rientrano nell’ambito considerato dallo studio Elsevier, che invece si concentra sui ricercatori in attività, il cuore pulsante della comunità scientifica nazionale.
Un altro studio dello scorso anno della Scuola Normale Superiore, sede di Firenze, era invece sceso più in profondità stimando in 14mila il numero dei ricercatori che dal 2008 al 2019 hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare all’estero. Una ferita profonda, considerando che gli italiani si collocano sempre ai primi posti ad esempio per i grant, cioè borse e finanziamenti, assegnati dall’Unione Europea.
Dei 33mila ricercatori analizzati, oltre 5mila hanno abbandonato l’Italia
“Fuga dei cervelli, circolo virtuoso di scambio internazionale o deficit strutturale del sistema italiano?”. Così si intitolava infatti l’evento in Senato di alcune settimane fa nel corso del quale è stata presentata la ricerca dell’editore, che conta oltre 3mila pubblicazioni in ogni ambito scientifico. Questi 33mila ricercatori sotto i 35 anni di cui sono stati analizzati movimenti, curriculum e risultati hanno iniziato a pubblicare negli ultimi 15 anni e hanno almeno una pubblicazione indicizzata nell’ultimo quinquennio. Di questi, oltre 5mila hanno abbandonato l’Italia per continuare il loro percorso accademico all’estero, iniziando a pubblicare stabilmente fuori dal nostro paese.
Mobilità permanente e mobilità transitoria
“Il risultato che emerge da questa analisi si può riassumere nella considerazione che siamo un paese virtuoso, estremamente performante a livello scientifico, tra i primi in Europa e, certamente, nella top ten al mondo, con una forte propensione alla mobilità e al rientro di questi cervelli che si muovono internazionalmente – spiega Claudio Colaiacomo, vicepresidente Global Academic Relations di Elsevier – nella nostra analisi abbiamo considerato i ricercatori giovani, quelli che più o meno hanno 35 anni di età. E poi abbiamo analizzato la loro mobilità, non solo verso l’estero, quindi la mobilità permanente, ma anche la mobilità transitoria, ovvero chi è uscito per qualche tempo ed è poi rientrato in Italia“.
Rimanere all’estero non significa essere “più bravi”: Usa e UK i paesi con i rapporti più stretti
Cosa dice ancora lo studio? Che i paesi con cui i rapporti sono più stretti, in questo caso senza troppe sorprese, sono Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti a una certa distanza dalla Francia. Ma come si spiegava, proseguire la propria carriera accademica all’estero non ha nulla a che vedere né con la qualità del ricercatore: chi rimane fuori dall’Italia, in qualche università o centro di ricerca oltre confine, non è più bravo di chi resta o ancora meglio di chi matura esperienza internazionale e poi rientra, sembra suggerire l’analisi. Lavorare all’estero non sembra collegarsi neanche al numero di pubblicazioni scientifiche all’attivo: a dirla tutta chi va fuori mediamente pubblica di meno rispetto ai colleghi che restano in patria, avendo però maturato un’esperienza internazionale che ovviamente ne arricchisce il percorso da un altro punto di vista.
L’emigrazione dei ricercatori è anche interna: dal Nord all’estero e dal Centro-Sud al Nord
Quello che emerge analizzando i ricercatori con esperienza internazionale, sempre secondo l’analisi Elsevier, è che se è vero che i giovani studiosi del Nord lasciano l’Italia per l’estero (23%), quelli del Centro e soprattutto del Sud Italia molto spesso lasciano il loro polo universitario per uno che si trova al Nord, dove generalmente sono situati i centri di eccellenza e si trovano maggiori opportunità lavorative, pur in un contesto difficile come quello nazionale, segnato da “baronati” – come le cronache recenti sono tornate a testimoniare negli ultimi tre anni con una grande quantità di maxi-inchieste sui concorsi pilotati – e posizioni di rendita, pochi fondi per la ricerca e precariato a vita. Il 10.5% degli accademici under 35 del Centro e l’8% di quelli del Sud si spostano in atenei del Nord Italia. E anche in questo caso a orientare le scelte è il ventaglio di opportunità che un determinato ateneo può offrire e non la qualità del ricercatore: quanti al Sud hanno maturato un’esperienza internazionale – lo ripetiamo, elemento che fa la differenza soprattutto quando si torna, più che quando si resta fuori – tendono a pubblicare di più, con un valore qualitativo pari a quello del resto d’Italia. Le differenze territoriali appaiono dunque piuttosto pregiudizievoli.
Il buco nero delle Stem e perché i ricercatori tendono a pubblicare più delle ricercatrici
Fra i giovani accademici con esperienza internazionale c’è infine una tendenza al gender balance, con un 45% di donne e un 55% di uomini in termini di parità di genere. Tra i ricercatori under 35 italiani, in particolare, il gender balance è migliore rispetto al resto della ricerca in generale e anche della media europea. Rimane un grande problema: quello delle discipline Stem, cioè di ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico che rimangono territorio quasi esclusivamente maschile, mentre le ricercatrici sono avanti rispetto ai colleghi uomini nel campo della medicina. In conclusione, un’altra peculiarità relativa al genere: gli uomini pubblicano in genere più delle donne, ma questo non ha a che vedere con la qualità delle studiose e degli studiosi, che è pressoché simile. Semmai i ricercatori uomini tendono a frazionare il lavoro di ricerca, pubblicando non necessariamente al termine dell’intera fase di ricerca, ma anche risultati intermedi.