Elogio del gioco di squadra e della «coopetitività»
Agli italiani piace da morire il calcio, ma ad esaltarli più di ogni altra cosa sono i fuoriclasse: super campioni che brillano in modo abbagliante seppure all’interno di un contesto di squadra, nel quale la prestazione dei singoli è importante quanto quella del collettivo, senza il cui apporto fondamentale nessun campione può vincere davvero.
Tra i fuoriclasse, però, a ottenere grandi risultati sono sempre quelli capaci di mettere il talento e la competitività al servizio del team, trasformando la loro brama di emergere e di primeggiare in una spinta coopetitiva che non si esprime nella sopraffazione dei compagni (lo stesso vale per i colleghi di lavoro e i collaboratori) ma nella capacità di spingerli e di aiutarli a migliorare, per il bene proprio e per quello di tutto il team.
Sembra solo retorica, ma una società che funziona e una civiltà che progredisce davvero si costruiscono così, non caricando sulle spalle dei più bravi tutte le responsabilità, osannandoli in modo esagerato quando fanno bene e gettandoli nel fuoco quando sbagliano.
Dal culto della personalità alla cultura della squadra
Ciò che continua a non essere chiaro in alcune culture e presso alcuni popoli (il nostro non fa eccezione) è la differenza che passa tra la fiducia e la stima nei confronti di una figura autorevole e competente e il culto della sua persona.
Le terribili esperienze dittatoriali subite da molti paesi in tutto il mondo, nel corso della storia, non sembrano essere state di grande aiuto in questa fondamentale consapevolezza, purtroppo. La gente continua a cercare profeti, messia e salvatori della patria, ma al tempo stesso ha bisogno di nemici pubblici, di mostri da sbattere in prima pagina e di capri espiatori, ai quali addossare ogni colpa e ogni male.
Si tratta di meccanismi che denotano immaturità e che perseguono obiettivi banali e assai poco lusinghieri: liberarsi di qualsiasi responsabilità e individuare i colpevoli di ciò che non va, tenendo alla larga guai e oneri troppo pesanti da gestire.
Meccanismi che possono anche funzionare nel breve periodo e alla bisogna, ma che alla lunga portano inevitabilmente alla catastrofe. Un solo uomo per grande che sia, infatti, non potrà mai essere davvero e in tutti i sensi determinante, nel bene o nel male, in negativo o in positivo.
Certo, i grandi fuoriclasse esistono, così come del resto esistono anche i “terribili casinisti” e i grandi malvagi. Esistono e sono estremamente ricercati, ma nonostante le loro doti e abilità non hanno alcuna possibilità di fare la differenza, se attorno a loro non si sviluppa un contesto collaborativo e un ecosistema sinergico. In poche parole una squadra.
Nemmeno il mitologico Diego Armando Maradona avrebbe vinto due scudetti a Napoli (gli unici due della storia calcistica partenopea) senza una squadra che facesse sistema attorno al suo enorme talento e lo stesso vale per tutte le squadre e in tutti gli sport; paradossalmente anche in quelli individuali, in cui il successo si raggiunge soltanto con uno staff che lavora al meglio per il suo atleta. Tanto meglio se questi ha anche la capacità di essere fonte d’ispirazione per gli altri, oltre e più che un rivale difficile o impossibile da sconfiggere.
Competere in team
Se “uno per tutti” non può funzionare senza “tutti per uno” e, ancor più importante, senza “tutti per la squadra/nazione/causa”, allo stesso modo non può funzionare un team, per coeso che sia, senza che al suo interno ci siano due fondamentali dinamiche:
- collaborazione;
- competizione.
In una sola parola COOPETIZIONE, uno sforzo dei singoli per migliorarsi costantemente e per cercare di prevalere ogni volta sugli altri. Non per umiliarli e sconfiggerli, ma per obbligarli a crescere e a migliorare a loro volta, per non restare indietro e non rappresentare una zavorra per tutti, tirando invece la volata a chi in quel momento ne ha di più.
Senza questa inclinazione nessun fuoriclasse è davvero degno di ammirazione e stima, perché tutto ciò che fa, per grande o eclatante che sia, lo fa per sé stesso, non per la squadra in cui gioca o per la causa che dichiara di voler perseguire.
Essere il migliore è una grande responsabilità, oltre che un grande onore e il privilegio di esserlo a lungo non è minimamente paragonabile alla condanna di esserlo per sempre e senza alcuna alternativa.
Quando questo avviene, come insegna la storia, la catastrofe è sempre dietro l’angolo, pronta a inghiottire qualsiasi successo o risultato ottenuto in precedenza, per buono che fosse.
Coltivare talenti coopetitivi
Per evitare questo, la sola strada percorribile è quella di coltivare in ogni modo lo spirito coopetitivo, evitando che la fortuna di avere in casa uno o più fuoriclasse possa trasformarsi in un problema o addirittura in una maledizione.
Non si tratta di una pratica semplice da espletare, ovviamente, perché il talento di un fuoriclasse ha bisogno di enormi attenzioni e della giusta pressione, per emergere e per mantenersi vivo, ma la sola strada verso un successo che non sia di uno soltanto ma di tutti, come le storie dei grandi campioni dello sport insegnano, passa necessariamente attraverso la cultura della coopetizione: accesa, viva, emozionante e inebriante, ma anche leale, sincera, solidale e altruistica. È così che si vince e che si rimane in alto a lungo, senza ricadere giù ogni volta e senza dipendere da nessuno, pur prendendo da ciascuno il meglio, per il bene di tutti.