L'eccellenza non è un peccato
Che fine ha fatto la meritocrazia? Fino a qualche anno fa sembrava il metro fondamentale sul quale costruire la nostra società: le scuole dovevano puntare a formare i migliori studenti possibili, l’università doveva eccellere per raggiungere i più alti standard internazionali, persino in politica ci si era ripromessi di selezionare solo i politici più integerrimi e competenti. Poi sembra che il sogno della meritocrazia – che non significa altro che premiare chi fa meglio, chi se lo merita – si sia sgonfiato.
A un certo punto abbiamo iniziato a guardare i più bravi, i più alti in carica, quelli “arrivati” con una circospezione crescente. Si è diffusa una cultura del sospetto sempre più pervasiva, per cui chi ha successo, chi è arrivato a posizioni di prestigio, chi si è guadagnato qualche titolo o qualche risultato in un certo qual modo non merita più una qualsivoglia reverenza, ma piuttosto deve essere guardato con occhio critico, scrutinato, continuamente messo a processo. Al contrario assumono sempre più importanza concezioni della società e del lavoro in cui tutti devono essere uguali, in cui la democrazia è assoluta nel senso di annullamento di ogni gerarchia, di azzeramento delle intermediazioni; uno deve valere uno, sempre e comunque.
Certo, un modello basato sul merito e sull’eccellenza ha alcuni rischi, come il classismo o l’eccessiva distanza fra chi ha ruoli di responsabilità e le persone su cui le decisioni di queste responsabilità ricadono; e decenni di scandali e abusi di potere ci hanno messo in allarme. Ma davvero sogniamo un mondo in cui ogni posizione di comando, di potere, di delicatissime competenze non vengono assegnate a chi se le merita di più ma a chi è considerato “uguale” agli altri, scelto dalla massa? Io sono fermamente convinto della responsabilità personale, della necessità che ogni individuo faccia del suo meglio per dare il miglior contributo di cui è capace: proprio per questo idealizzo una società in cui tutti saremo uguali nell’eccellenza. Ma a quest’ultima non si deve rinunciare mai, pena un livellamento verso il basso.
Riflettendo sul concetto di eccellenza mi sono imbattuto, dopo qualche ricerca su Google, nelle parole attribuite al professor Michemi dell’università keniota di Maasi Mara: “L’eccellenza accademica è sopravvalutata! Essere il più bravo della classe non garantisce che la tua vita sarà sempre al meglio”, sostiene il docente. “La vita richiede molto di più che l’abilità di comprendere un concetto, memorizzarlo e riprodurlo a un esame”. Se in un primo momento questa posizione mi ha lasciato stupefatto, man mano che ci riflettevo ho capito che, anzi, il professor Michemi mi aveva aiutato ancora di più a convincermi che l’eccellenza è fondamentale. Nel senso che i movimenti di questi anni che propugnano l’uguaglianza si appigliano al fatto che a volte l’eccellenza è ridotta a un titolo, a un numero, a un reddito; viene cioè sterilizzata e annullata dalla realtà fattuale, da standard irraggiungibili.
Invece bisogna inseguire l’eccellenza della vita: “Pensate meno a diventare un eccellente studente e di più a diventare un’eccellente persona”, conclude il professor Michemi. Esattamente questo voglio dire: allontaniamoci dalle sirene di una democratizzazione che abbassa gli standard ma non inseguiamo nemmeno un successo che ci allontana dalla verità della vita; perseguiamo invece i più alti standard in tutti gli aspetti della nostra vita sociale, della nostra creatività e della nostra propensione al futuro. L’eccellenza, in questa accezione, è una sfida eroica, quanto più è umile e continua. Anche perché nemmeno il più bravo di noi è mai veramente arrivato: il Word Economic Forum sostiene che ogni 5 anni le nostre competenze più avanzate sono già obsolete e dobbiamo impegnarci per aggiornale. L’eccellenza è quindi sempre un passo di fronte a noi, decidere di inseguirla non è peccato.