Per crescere impara a dimenticare
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Dimenticare, secondo l’etimologia latina dementicare, significa letteralmente tirare fuori dalla mente.
La dimenticanza però è un processo naturale bistrattato, specialmente se l’oggetto obliato ha un valore affettivo, o comunque risulta importante. Il riscatto della dimenticanza passa attraverso la riconsiderazione dello stesso processo: dimenticare è un processo biologico come un altro. Anzi, nell’uomo ha una doppia valenza, tanto fisiologica quanto psicologica.
Potremmo semplificare dicendo che dimenticare salvaguarda l’ordine mentale, è quasi un’azione di pulizia. Conviene pensare alla memoria come un enorme magazzino. Potenzialmente, ricerche lo affermano, altre non sono dello stesso avviso, la memoria umana potrebbe organizzare e assorbire un numero infinito di informazioni.
Perché ci si dimentica di persone o cose, allora? Più che cancellare un pacchetto di informazioni, il cervello umano riorganizza i dati meno importanti in modo gerarchico, così la presenza di tutti i ricordi è assicurata, ma sopravvivono in superficie solo quelli utili.
Tulving nel 1983 descrive tre fasi principali dei processi di elaborazione mnestica: la fase di codifica, in cui la nuova informazione viene trasformata in un codice che la memoria riconosce, la fase di ritenzione, in cui il ricordo viene consolidato in una condizione stabile o a lungo termine, e la fase di recupero, in cui l’informazione viene recuperata dal comparto a lungo termine alla memoria di lavoro, pronta per essere utilizzata. Questo aspetto delle memoria è stato approfondito abbastanza di recente. Ma già più di cento anni fa Freud ebbe l’intuizione di come la memoria svolgesse un lavoro importante nella psiche umana – conseguentemente anche a livello fisico – individuando nelle tracce mnestiche parte della composizione narrativa dei sogni.
Una ricerca, a firma di Maria Wimber, accademica della School of Psychology di Birmingham, dimostra che quando cerchiamo di ricordare un evento, i processi di richiamo dei singoli elementi sono in competizione tra loro. E il richiamo del ricordo attiva un meccanismo di controllo che sopprime tutti gli altri, conseguentemente dimenticati. Se ci si è dimenticati di un oggetto, probabilmente la nostra mente lo ha ritenuto poco importante al fine dell’obiettivo perseguito in quel momento; se i lineamenti di una persona che non vediamo più scompaiono sulle pellicole dei ricordi non c’è da temere: è necessario per il progredire stesso della crescita individuale.
All’estremo opposto, il paziente S. descritto dal neurologo russo Alexander Luria in Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla è allo stesso modo incapace di dimenticare, e vive questa forma di memoria pervasiva e assoluta più come un handicap che come una potenzialità.
D’altro canto, infatti, pensare che la memoria ideale sia un supporto in cui i ricordi convivono in maniera parallela e con la stessa vivida intensità è tanto utopico, quanto nocivo. Tale processo è a tutti gli effetti una patologia rara: l’ipermnesia, indagata a livello linguistico anche da Jacques Derrida in Monolinguismo dell’altro. Questa abbondanza di tracce mnestiche, con conseguenti riattivazioni sensoriali epidermiche e fisiologiche, porta solitamente il soggetto verso la schizofrenia o comunque verso un equilibrio mentale precario, distorto e patologico. Ecco perché dimenticare è necessario per crescere.
Ricordare è solo la scelta dell’informazione che è più utile per adattarci ad ambiente e circostanze; con buona pace di Funes il Memorioso di Jorge Luis Borges.
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