Sei a capo di un'azienda? Evita di comunicare così sui social
Moltissimi utenti pensano di uscirne, molti ci resteranno, tanti stanno invece pensando di entrarci. Ma pochissimi si stanno chiedendo se vale la pena utilizzarli davvero. La domanda è importante per tutti, ancora di più per chi ha un incarico rilevante, privato o pubblico. Ma è tenuta lontana da due guardiani difficilmente superabili: la vanità, e quel maledetto luogo comune secondo cui se non ci sei non esisti. Parliamo di social network.
Il CEO incontra i social
Il primo incontro del CEO con i social network avviene generalmente in due modi: per analogia e tramite agenzia. E spesso in sequenza.
L’incontro per analogia può avvenire durante una cena, davanti a un individuo con un equivalente livello gerarchico e di vanità, che mette sul tavolo i suoi 10.000 followers. Ed ecco che il nostro CEO, per analogia, vuole esserci anche lui.
La mattina successiva parte la telefonata all’agenzia, cui segue l’incontro, con tanto di grafici sui like, il posizionamento e l’aumento della visibilità (per lui fondamentale, fa rima con vanità).
Diversamente dal primo, questo secondo incontro è cosa buona, perché quando si tratta di prendere delle decisioni, è bene confrontarsi con chi ha delle professionalità da vendere, anche se recenti, come in questo caso; e perché lecompetenze nel campo della comunicazione sui social network sono in crescita, sia per quantità, che per la qualità dell’offerta.
Intanto il numero dei termini in inglese cresce: le slide mostrano i flussi di click, gli screenshot dei profili dei CEO della Silicon Valley, e le dashboard con i tool per analizzare le metrics dei futuri follower del nostro CEO. E la risposta alla domanda “vale la pena esserci” è ancora inevasa.
Vi-si-bi-li-tà
Durante questo secondo incontro può succedere che il CEO non si faccia convincere da termini quali reputazione e partecipazione, e provi a entrare nel merito a modo suo, forzando l’argomento con la domanda di solito dedicata ai fornitori: “mi porta fatturato? E il ritorno sull’investimento?”
Una domanda pertinente quasi sempre, ma di rado per ciò che riguarda la comunicazione; e anche aggirabile con qualche trucco, ricorrendo per esempio alla parolina magica che appiana ogni problema, che per i CEO ha funzione ipnotica e quasi sedativa: vi-si-bi-li-tà.
Visibilità, fatturato, reputazione. E se il nostro CEO è insoddisfatto o distratto, se ne aggiunge una terza, che porta ugualmente fuori strada, anche se corroborata da studi, che ormai da circa otto anni ragionano sui “social CEO”.
È engagement, e indica la capacità di un utente di ingaggiare dialoghi con altri utenti sul social network. Ma attrezzarsi per stare qualche minuto al giorno a dibattere su Twitter con perfetti sconosciuti, non risponde alla domanda iniziale.
Come non esserci
È passato un mese dal primo tweet, e spinto dalla parolina magica e “dopato” dalle endorfine solleticate dai primi like o dalle prime condivisioni (è provato scientificamente) il nostro CEO non è più l’unico al tavolo ad avere un profilo pubblico, ed è finalmente visibile e “socialmente” attivo.
Si sente tranquillo. Pensa che non gli costi niente: se ogni settimana vengono diffusi comunicati e note stampa alla cieca come messaggi in bottiglia che si disperdono nell’oceano dei media, chissà mai che male può fare mandare altri messaggi, in altri oceani, ad altri destinatari sconosciuti.
Prende forma così il primo tipo di CEO social. Quello che sceglie la semplicità e il minimo sforzo, ma diventa banale trasformandosi nel megafono delle comunicazioni della sua azienda già diffuse su altri canali.
E non è una mosca bianca, perché il web è pieno capi d’azienda e utenti senza originalità che diventando automi (a furia di parlare di robot sono diventati dei BOT?) e compilano post senza soggetto, verbo e predicato, copia-incollando le stringhe di testo estratte da un comunicato stampa aziendale.
Quando va bene sono stringhe incolore e senza personalità. Ma possono anche contenere hyperlink illeggibili, o addirittura dare visibilità immeritata a messaggi di uffici stampa senza fantasia o persino grammatica.
In ogni caso sono azioni che non portano risultati efficaci, se non quello di mostrare che esiste una fantozziana riverenza anche sul web, di dipendenti e collaboratori che diligentemente ritwittano e condividono il verbo del capo.
Un altro tipo di CEO social è quello “in libera uscita”. Ed è colui che pensa di parlare agli amici nello spogliatoio del calcetto, e allora scrive dimenticando gli elementi base di un normale dialogo tra simili, come la chiarezza, il rispetto per gli interlocutori e il tono della voce.
Di certo ha meno colpe del “CEO megafono”, perché almeno cerca di comunicare in modo autentico, ma commette l’errore più democratico: tutti ci siamo lasciati andare almeno una volta, sull’onda dell’emotività, e abbiamo litigato o preso in giro un utente, elargito giudizi avventati o impropri, o abbiamo condiviso contenuti non letti fino in fondo
In ogni caso, tutti siamo cascati nell’illusione di gestire a pieno la libertà che il web ci concede: prima o poi un pensiero dal sen fuggito torna indietro come un boomerang. E se capita all’amministratore delegato è peggio.
È certo un rischio che non corre il terzo tipo di CEO social, quello invisibile; che ha un profilo ma non scrive, non ha amici, non condivide nulla. E tanto valeva che stesse a casa.
Cosa fa il CEO prima di comunicare sui social
Dopo aver letto come un CEO non deve avvicinarsi e comunicare attraverso i social network, è bene capire che ci sono cose da fare prima di buttarsi.
E sono importanti come fare la patente prima di mettersi alla guida: vanno fatte prima di cominciare e bisogna saperle fare anche mentre si comunica.
Leggere
La domanda chiave “perché comunicare sui social” si trova con un percorso lungo e difficile. Ma una volta cominciato a twittare e scrivere post su LinkedIn, gradualmente emerge un fatto evidente: chi c’è scrive.
E nel mondo reale, di solito, chi scrive legge o sa leggere. Ma non nel mondo dei social network, nemmeno se stiamo parlando di CEO.
Anzi, oggi, spinta dai social, è tantissima la voglia di scrivere, ma pochissima quella di leggere. E in azienda la tendenza non è smentita: gli amministratori delegati e i manager leggono pochissimo. Pochi libri, pochi giornali.
Un fatto strano, se si pensa che le occasioni di parlare e scrivere aumentano.
E se il CEO non legge e non studia, ha un problema: cosa dire al convegno o al TED, nell’intervista, nel post allegato alla foto, nel video, nell’articolo firmato, alla convention annuale?
Il pubblico
“Ricorda sempre che al giorno d’oggi, quando parli a una sola persona, è come se parlassi a mille” dice la giornalista Zoe Barnes a Frank Underwood in House of Cards.
E infatti il CEO diventato social è un libro aperto: se scrive male e parla male si capisce ed è quasi sicuro che pensi male e legga male, o poco.
Leggere è invece un’azione decisiva per acquisire la maggior parte degli strumenti utili a comunicare con ognuno degli interlocutori di un CEO. Leggere le azioni, le parole, il contesto, rende possibile la comprensione del pubblico, che prima di essere digitale è reale.
Da un sondaggio di Weber Sandwich risulta infatti che i CEO digitali utilizzano i social per comunicare – nell’ordine – con i dipendenti, i clienti, e gli investitori.
Eppure ci sono capi azienda che twittano spesso, ma non parlano con i collaboratori che stanno al piano di sotto, non incontrano mai i clienti, neanche quelli con i contratti che pesano di più, ed evitano di dire agli investitori che l’azienda va male.
“Buongiorno Dott. Brambilla. Benvenuto nella nostra azienda!”.
“Direttore, io lavoro qui da sei anni.”
È accaduto davvero, e suggerisce al Direttore di farsi un giro negli uffici, prima di scrive un post sulla partecipazione dei dipendenti alle iniziative aziendali; e di conoscere di persona, se possibile, i collaboratori con cui stringe una relazione digitale twittando durante la pausa pranzo.
Prima di chiedersi se sia utile comunicare sui social, vanno infatti ben utilizzati i canali di comunicazione già disponibili, e magari dimenticati.
C’è sempre un pubblico che è già vicino e disponibile, e magari in attesa di una risposta. E ci sono passaggi, magari sottovalutati, che vengono prima della comunicazione sui social, come mettere il proprio cv sul sito dell’azienda.
Contenuti e non parole
Anche questo aneddoto è vero: un CEO ne incontra un altro che gli dice “Ho visto che hai pubblicato un libro. Chi te l’ha scritto?”. E l’altro gli risponde “E a te chi l’ha letto?”.
Anche qui non siamo nel contesto della fantasia, ma della verità: i contenuti sono preziosi, e non sono gli amministratori delegati a produrli.
Infatti la difficoltà delle figure che governano le aziende è trovare professionisti che conoscano davvero la materia e il settore di cui devono argomentare.
Spesso invece si trovano di fronte a professionisti alle prime armi, prestati ai social network solo per la convinzione che sia un mestiere per giovani, magari da pagare poco.
Il grado di approfondimento e difficoltà dei contenuti da produrre per comunicare dentro e fuori l’azienda è invece molto vario.
Ci sono aziende e prodotti semplici e comuni e invece altri sofisticati, che richiedono anni di preparazione, e che il mercato della produzione dei contenuti ancora oggi non riesce a soddisfare.
Il food, per esempio, è un argomento con un’offerta molto ricca, che va dai programmi prodotti intorno a un marchio, fino agli eventi, passando per i contenuti per la carta e digitale.
Poi, fortuna vuole che alcune aziende si trovino in casa i volti di fondatori che sono in grado di parlare meglio di mille contenuti, come nei casi di Giovanni Rana, Giancarlo Amadori, ma anche Ennio Doris.
Tolte queste pochissime eccezioni, è bene sapere che i contenuti si studiano, si imparano, poi si producono internamente. Difficilmente si comprano. Anzi, di solito è bene affiancare un CEO e aiutarlo a produrli nel suo ufficio.
Ma perché produrli e diffonderli?
Una risposta paradossale, che disorienta, si può trovare proprio sui social, dove accade di rado, ma stupisce, che CEO, Direttori di giornali e C-level postino analisi, idee, proposte talmente di qualità e approfondite, che altrove sarebbero a pagamento.
Sorge allora un dubbio: se sono contenuti interessanti, perché regalarli a tutti? Non è meglio condividerli in privato con chi si lavora?