È semplice: l'azienda che crede nei suoi impiegati e collaboratori investe nella formazione
È paradossale che nell’economia della conoscenza le aziende abbiano disinvestito in formazione. Dal 2009 al 2015, secondo la ricerca Cranet 2015, le giornate medie dedicate alla formazione erano passate da 3 a 5. Anche i fondi utilizzati avevano subito un incremento rilevante: la percentuale del costo retributivo annuo investito, era passato da <=1% nel 59% delle aziende private nel 2009, a oltre l’1% nel 63% delle aziende nel 2015, con un 23% di aziende che dedica anche più del 3% del costo retributivo annuo agli investimenti in formazione. Ma dopo questa impennata, come riporta Attilio Barbieri nel suo articolo su Libero di luglio 2017 “Formazione a secco. Gli over 50 rischiano”, le imprese disinvestono e restano senza corsi di riqualificazione. Nel 2016 le aziende che si sono servite di formazione sono scese al 20,8%, cioè le persone che hanno partecipato ad almeno un corso di formazione o aggiornamento professionale sono state 240mila in meno rispetto al 2015.
Non ci si può quindi di certo meravigliare se il 2016 ha registrato anche un altro dato particolarmente rilevante in questo contesto e cioè quello di 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni che hanno deciso di lasciare il nostro Paese per costruirsi il loro futuro in un altro Stato. I nostri talenti, quelli nel pieno dell’età lavorativa si sono rivolti all’estero per ovviare alle difficoltà occupazionali e di realizzazione personale sofferte in Italia, scegliendo il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, gli Stati Uniti e la Spagna, ma anche la Cina, la Romania e gli Emirati Arabi Uniti.
Eppure lo stesso Philip Kotler, guru del marketing, che ho avuto il piacere di ascoltare all’inizio del mese di ottobre presso la Confcommercio, ribadisce a chiare lettere quanto sia fondamentale per un’azienda che vuole primeggiare nel suo mercato di appartenenza rivolgere l’attenzione ai suoi dipendenti, oltre che ai propri clienti e fa l’esempio del Marriott Hotel dove il cliente viene al secondo posto, mentre sono i dipendenti ad essere al primo, perché è la loro buona formazione ad assicurare all’hotel che il cliente ritorni a sceglierli.
Il passo in avanti che un capo deve fare è quello di vedere l’azienda come un investimento e non come un costo, il capitale intellettuale, non dimentichiamoci, rappresenta l’elemento vincente della sfida all’ambiente economico. Il sapere, il know how di un individuo sono fonte di innovazione che va adeguatamente coltivata, diffusa, fatta circolare, ricombinata, come direbbe Nonaka. L’azienda quindi deve essere in grado di diffondere ciò che produce ma deve far si che le conoscenze, la creatività e le esperienze abbiano una rapida condivisione e una crescita collettiva.
«Un Paese che non investe sui giovani è un Paese senza futuro» dice Francesco Pugliese, numero uno di Conad «Dalla scuola escono studenti preparati e bisogna dar loro la possibilità di realizzarsi nel mondo del lavoro, soprattutto a quelli più intraprendenti, pena la loro fuga verso Paesi che offrono loro di più dell’Italia. La cosa che più dispiace è che i ragazzi che decidono di trasferirsi all’estero per mancanza di opportunità in Italia sono quelli di cui abbiamo maggiormente bisogno, perché con la loro decisione dimostrano coraggio, determinazione e voglia di mettersi in gioco. E queste sono le caratteristiche più preziose in un giovane». Conad, per parte sua, sostiene la formazione sia al suo interno che direttamente presso l’istituzione scolastica, perché «non basta dire di voler combattere la disoccupazione giovanile, formulando magari brillanti idee, ma è di fondamentale importanza avviare progetti reali». Sul fronte aziendale, la Conad organizza corsi per formare sia i giovani che intendono gestire un punto vendita sia i dipendenti a tutti i livelli e in ambito scolastico ha avviato diversi progetti a sostegno dei giovani, fra i quali spicca “Resto al Sud Accademy”, una scuola che si rivolge ai giovani talenti digitali nel tentativo di arginare l’impoverimento economico e sociale del Mezzogiorno.
Questo è solo uno degli esempi di piccole, medie o grandi imprese che si possono fare, ma non bastano se a oggi i nostri talenti preferiscono fuggire. Alla fine del secolo scorso (e non rischiamo un anacronismo nel dirlo) veniva dato valore ai beni intangibili del capitale di un’azienda, fare dei passi indietro in questo senso sarebbe un errore imperdonabile nell’economia del ventunesimo secolo.