Il centro di gravità permanente che stiamo cercando non è fuori, ma dentro di noi
Quando diede vita a un’arte marziale che prendeva qualcosa da tutti quanti gli stili marziali, Bruce Lee aveva davvero capito tutto. No, non aveva capito tutto semplicemente delle arti marziali: aveva presagito tutto del mondo connesso e globale che oggi è il nostro habitat naturale. Cinquant’anni fa Bruce Lee aveva già straordinariamente intuito che i grandi sistemi – filosofici, spirituali, ideologici, politici, culturali – erano destinati al tramonto perché la loro pretesa di essere punti di riferimento totalizzanti si sarebbe sgretolata in un mondo in cui ciascun essere umano ha a disposizione possibilità di scelta assolutamente senza precedenti. Oggi noi abbiamo una mente orizzontale e non più verticale. Oggi noi siamo dinamici e mutevoli, non più statici. Oggi noi – che eravamo sequenziali – siamo simultanei e istantanei. Eravamo logici e ora siamo neobiologici. Eravamo meccanici, siamo oggi organici e connettivi. Oggi ci troviamo – enorme privilegio, enorme rischio – in un’era di reinvenzione dei nostri circuiti mentali, cognitivi, percettivi. In questa nuova condizione – antropologica e vitale prima ancora che tecnologica – gli schemi generalisti di riferimento e le narrazioni sistematiche sono utili come una scarpa stretta con i buchi nelle suole.
Ecco perché oggi noi dobbiamo imparare a essere incondizionatamente asistematici. Perché ora che il mondo è asistematico, molteplicissimo, connettivo, e in questo modo ci offre miriadi di opzioni, noi dobbiamo abbracciare e valorizzare questa asistematicità. Se cerchiamo – come nella famosa canzone – un centro di gravità permanente, dobbiamo sapere che non è nei sistemi di pensiero esterni che possiamo trovarlo ma nei nostri personali valori e sentimenti, nella nostra attitudine verso la vita. In questo modo – proprio come Bruce Lee e il suo jeet kune do – noi possiamo poi prendere da ogni sistema qualunque cosa che ci può essere utile senza affatto dover aderire a quel sistema. Posso prendere qualcosa da Platone o dall’illuminismo o dal marxismo o dal modernismo – cito volutamente cose da cui sono personalmente molto distante – senza cedere al ricatto di dover abbracciarne il sistema.
Perché adesso il sistema siamo noi personalmente. È un compito immane, inutile nascondersi le difficoltà: si tratta di una vera metamorfosi antropologica. Proprio per questo trovo quantomeno insufficiente – se non sterile – la posizione di quei pensatori (Bauman in testa, e in generale tutti quelli di impronta concettual-psicanalitica che tendono a vedere tutto come disfunzione) che invece di mostrare come possiamo impadronirci del mondo asistematico e connettivo ci mettono in guardia da esso enfatizzandone i problemi e nascondendone le opportunità senza precedenti. Perché nei sistemi che si pretendono esaustivi la responsabilità è evidentemente del sistema stesso, mentre nel modello asistematico del mondo in cui viviamo siamo noi a prenderci la responsabilità personale e condivisa delle nostre esistenze.
A me questa appare come la questione principale della nostra epoca, il vero senso del mutamento: per la prima volta nella storia umana non grandi personaggi o piccoli gruppi illuminati ma gli esseri umani nella loro natura sono chiamati – tutta l’innovazione scientifica e tecnologica lo reclama – a diventare responsabili dell’intero processo vitale. Un importante libro di un eccellente pensatore – Yuval Noah Harari – si intitola Homo Deus: ecco, è proprio così, siamo piccole, fragili divinità con inesorabili date di scadenza, ma oggi noi possiamo essere dei.