L’arte della discrezione
Il filosofo francese Pierre Zaoui nel 2013 proponeva una risposta a questo interrogativo, in un saggio interessante quanto controcorrente, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione. Una provocazione, forse. Il titolo, d’altra parte, suggerirebbe questo. In realtà, possiamo cogliere in tale proposta un senso profondo di concretezza e, perché no, anche di attualità. Come sostiene Zaoui, “pensiamo che chi scompare lo faccia per odio delle apparenze, che chi si ritira dal mondo lo faccia per disprezzo del mondo”. In realtà, “il piacere di non farne più parte diventa sintomo di un amore profondo per il mondo e per le apparenze”. Tuttavia, assumendo una posizione discreta, anche solo per un periodo limitato, ci si può aprire ad un’esperienza nuova, ossia l’abbandono dell’idea di essere indispensabili, e di dover essere sempre presenti, sotto lo sguardo di tutti. Con le parole di Zaoui, “farsi improvvisamente discreti significa rinunciare per un momento a qualsiasi volontà di potenza”. Di fatto, l’esperienza della discrezione può rivelare un desiderio di depersonalizzazione, consentendo un’uscita momentanea da quel gioco di pressione sociale in cui si dipana il nostro stare al mondo nell’ambito delle nostre relazioni.
Certamente, non è affatto ovvio né scontato pensare che la discrezione possa risultare un concetto intrigante e suggestivo, soprattutto in un contesto in cui l’esperienza dei social appare pervasiva e talvolta debordante. Molti di noi sono (ovviamente con un’enorme variabilità di sfumature) attratti, sedotti e affascinati da Facebook e negli ultimi anni soprattutto da Instagram. Con frenesia scorriamo le bacheche dei nostri profili e visualizziamo di continuo le storie dei nostri contatti. Solitamente nulla di particolarmente interessante o significativo, questo lo sappiamo. In fondo, si tratta di questo: la quotidianità media (come avrebbe detto Heidegger) di ciascuno messa in mostra ed enfatizzata sui social, a beneficio di follower da cui ci si attendono visualizzazioni, like, reazioni emotive e magari qualche commento (sovente scritto con un utilizzo assai precario del linguaggio). Un meccanismo che diventa mestiere quando a metterlo in pratica sono dei “professionisti”, ossia gli influencer. Che siano micro o macro (a seconda del numero di follower), gli influencer rappresentano di fatto una nuova élite: precisamente l’élite di Instagram che, come sostiene un esperto di comunicazione e marketing come Paolo Landi nel suo recente saggio Instagram al tramonto, rappresentano “forme massificate di individualismo, ossimori viventi che incarnano una esclusività omologata, […] che hanno capito le potenzialità del mezzo e ci sguazzano, perfettamente a loro agio nella sua superficialità, venditori del nulla, eroi di uno stile di vita che somiglia a un gioco che azzera meriti, fatiche e conquiste, che celebra la vita, più che nella sua velocità, nella sua istantaneità”. Esperienza privata e professionale si intrecciano in una fitta trama di post e storie, in cui tutto si mostra nella sua essenza di superficie, con la costante pressione a pubblicare contenuti spacciati per interessanti, ma che ad un occhio sufficientemente attento si rivelano per ciò che effettivamente sono, ossia assai spesso banali e di nullo valore. Tutto ciò sembra porsi come totalmente antitetico rispetto ad un’esperienza di discrezione, che potrebbe tuttavia rivelarsi (almeno temporaneamente) decisamente salutare (per loro stessi quanto per i loro follower).
Sottrarsi a questa dinamica potrebbe sembrare qualcosa inconsueto, provocatorio o financo rivoluzionario. Come sostiene Zaoui, “essere discreti, ovvero non farsi notare, saper tacere e rendersi invisibili, uscire quindi in anticipo, o almeno ogni tanto, dal gioco da galletti della mostrazione e del riconoscimento” sembra oggi essere non tanto una pura provocazione, quanto piuttosto una vera e propria forma di resistenza, quasi necessaria in un mondo dominato da storie e selfie su Instagram, video su Youtube e regressivi siparietti su Tik Tok.
Come può manifestarsi, nel concreto, questo desiderio di discrezione? Tra i tanti esempi, intendo richiamarne tre, tutti abbastanza recenti e relativi a mondi decisamente “in vista” come quelli dell’imprenditoria, della moda e dello spettacolo.
- Nel maggio del 2019 Brunello Cucinelli, l’imprenditore “re del cashmere”, paladino del lusso Made in italy, ha invitato a Solomeo, il borgo medievale immerso nel verde dell’Umbria che ospita la sede dell’omonima azienda, Jeff Bezos di Amazon insieme con alcuni tra i più importanti protagonisti della Silycon Valley. Per tre giorni si discuteva non di business in senso stretto, quanto piuttosto di grandi temi che coinvolgono l’umanità intera. E il ricorso al pensiero, alla riflessione, al confronto ragionato si è svolto in un contesto discreto e separato, nella valorizzazione, almeno momentanea, dell’assenza. A tal proposito lo stesso Cucinelli raccontava come in quei giorni si fosse vissuto “nella più grande intimità, lontani dai telefonini; ognuno ha parlato della sua vita. Abbiamo passeggiato, abbiamo vissuto le atmosfere del borgo, come l’incontro con il camioncino della frutta e il venditore che è sceso e ci ha offerto una pesca o un’albicocca. Discutendo dell’identità, delle radici, di come poter progettare il futuro dell’umanità”.
- Il 2021 per il settore del lusso si è aperto con una notizia del tutto inattesa: Bottega Veneta rinuncia alla sua presenza sui social. Una scelta alquanto singolare, soprattutto alla luce del fatto che praticamente tutti i grandi brand della moda e del lusso da anni investono cifre significative sulla propria presenza on line, in particolare sui social, piattaforme attraverso cui ingaggiare un target strategico come quello dei millennial. Pare che sia stato lo stesso direttore creativo del brand, Daniel Lee, a spingere per l’abbandono dei social. Persona discreta e schiva, in un’intervista di qualche tempo fa Lee affermava che “è stato bello crescere nell’era pre-Instagram: ci divertivamo molto. Sarà interessante vedere cosa accadrà in futuro. Io credo che ci sarà un ritorno alla privacy. Lo spero davvero”.
- Nel febbraio di quest’anno si è conclusa dopo 28 anni l’avventura musicale dei Daft Punk, duo francese che si è sempre distinto non solo per la raffinata ricerca musicale, ma anche per la scelta consapevole di un totale anonimato. I caschi di Guy Manuel e Thomas Bangalter indossati in pubblico non rappresentavano tanto un vezzo estetico, quanto uno strumento che ha consentito loro di coniugare l’idea del mistero attorno alla loro identità con la tutela della propria privacy. In un’intervista del 2014 Guy Manuel parlava proprio del significato degli iconici caschi: “Abbiamo deciso di nasconderci. Vogliamo avere una vita regolare interagendo con le persone ogni giorno, prendere la metro, comprare il pane. Facciamo tesoro del poterci comportare normalmente, rimanere anonimi e non essere spiattellati su tutte le copertine delle riviste. Facciamo così da 20 anni, le persone lo hanno capito e ci hanno sempre supportato“.
La discrezione, secondo Pierre Zaoui, rappresenta oggi una nuova faccia della modernità, un’opzione di libertà di cui possiamo effettivamente godere. Se la democratizzazione mediatica ha offerto a tutti i warholiani quindici minuti di celebrità, la massificazione digitale contemporanea ci offre una possibilità opposta: quindici minuti di sparizione. La ricompensa potrebbe essere una felicità per sottrazione, un temporaneo vivere nascosto, come Epicuro suggeriva con la pratica dell’exchóresis: ritrarsi dal clamore, dedicarsi a piaceri semplici con la compagnia di poche persone scelte, rifiutare la volgarità dell’ostentazione; per riappropriarsi di un contatto più profondo e autentico con sé stessi, con le relazioni e con la realtà.