Gli uomini e le donne hanno davvero capacità diverse sul lavoro?
Da molti decenni sociologi di varia formazione utilizzano lo stesso tipo di ricerca per analizzare il ruolo degli stereotipi di genere nei luoghi di lavoro. In questo tipo di ricerche si fanno valutare ai partecipanti dei test (curricula, interviste, ecc.) preparati da candidate e candidati a un posto di lavoro. Da diversi decenni questo tipo di ricerca conferma il cosiddetto “paradigma di Goldenberg”: se la candidatura è per un lavoro considerato “maschile”, a parità di materiale sono preferiti gli uomini; se la candidatura è per un lavoro considerato “femminile”, malgrado il materiale sia lo stesso sono preferite le donne. Cioè le valutazioni sono adattate per favorire la candidatura che appare congruente tra sesso di chi si propone e genere considerato “adatto” per quel ruolo.
Il luogo comune vuole più adatti ai tratti maschili la componente detta agency (forte autostima, orientamento al compito, impegno verso gli obiettivi) mentre ai tratti femminili è considerata tipica la communality (altruismo, capacità nelle relazioni, comprensione empatica). Questa divisione di abilità ha una ricaduta nei giudizi anche nel caso in cui un genere si metta alla prova nelle abilità considerate tipiche dell’altro: è stato misurato che gli uomini che dimostrano communalities sono valutati molto di più delle donne che dimostrano capacità nell’agency – tipicamente, i primi sono considerati più “completi” mentre le seconde sono negativamente considerate “mascoline”, fuori ruolo.
Ecco che le donne fanno più rapidamente carriera, per esempio, nell’ambito delle risorse umane: a prescindere dalla preparazione e dall’esperienza, sono considerate “più adatte” a questi ruoli. L’effetto impari è che gli uomini che potrebbero essere capaci in questo settore sono spesso convinti a fare altro, o relegati a posizioni inferiori; lo stesso trattamento è destinato alle donne che vorrebbero provarsi in ruoli tipicamente maschili, per i quali viene sempre richiesto loro di dimostrare “di più” dei loro colleghi uomini.
Il caso emblematico che racconta di questo miscuglio di attitudini e stereotipi è quello del ruolo manageriale. I ruoli di manager sono talmente numericamente sbilanciati a favore maschile che è stata coniata l’espressione think manager, think male per descriverla. Proprio perché, malgrado le eccezioni, sembrano preclusi i ruoli apicali per le donne, si parla di glass ceiling, un soffitto di cristallo che sembra non esserci ma che in effetti respinge le candidature femminili, pochissimo presenti, ad esempio, nei consigli di amministrazione o alla guida di aziende. Ciò che rende emblematico il fenomeno però non è solo questo aspetto. Da parecchi anni si è osservato che esiste a questo andamento non paritario una notevole eccezione: il periodo di crisi. Quando le aziende e le organizzazioni sono in perdita o vanno indietro nel ranking del loro settore, allora le donne manager sono più richieste. Proprio per le loro caratteristiche di leadership collaborativa ed empatica, sono considerate migliori nell’affrontare periodi incerti, confusi e nei quali una funzione di cura, più che di guida, è ritenuta indispensabile.
Sostanzialmente, quindi, è lo stereotipo a comandare la scelta delle attitudini più adatte a uomini e donne, e non il contrario. Lo testimonia il giudizio che viene dato alla componente genitoriale in azienda: colleghi e superiori percepiscono le donne meno interessate alla carriera se sono anche madri, laddove la paternità non è nemmeno presa in considerazione come possibile elemento di giudizio. A meno che, raccontano le indagini più recenti, gli uomini non dichiarino “ufficialmente” questo loro interesse ad esempio chiedendo di usufruire del congedo parentale: allora sono percepiti immediatamente come poco interessati alla carriera, e relegati nel giudizio – e spesso nella retribuzione – alle colleghe “mamme”.
Da una parte quindi gli studi confermano che la valutazione, per quanto la si creda “oggettiva”, è ancora troppo spesso guidata dal genere del candidato o della candidata. Dall’altra, questo meccanismo ancora efficace condiziona le scelte di molti e molte che non osano mettersi alla prova in settori o esperienze nei quali il loro genere non è ben rappresentato o tradizionalmente presente. Questo doppio meccanismo per nulla basato sulle reali attitudini dei soggetti continua perciò a condizionare l’emergere di talenti e competenze, e la scelta di una carriera appagante e produttiva.