Abbasso l’uguaglianza (e la sua mitizzazione antistorica)
Lo so che non pochi sobbalzeranno, leggendo quello che sto per dire, ma credo davvero che dovremmo sbarazzarci dell’idea di uguaglianza. Perché l’idea che siamo tutti uguali è nel migliore dei casi vecchia, e certamente è fasulla.
Certo, storicamente il concetto di uguaglianza è stato fondamentale per immunizzarci dall’odioso virus che giustificava il sopruso di pochi ai danni di quanti, per nascita o per censo, si ritrovavano nelle zone basse della piramide. Ma nel mondo in cui viviamo, il mondo della proliferazione delle possibilità di scelta, il mondo in cui ciascuno di noi può costruire sintesi personali fra tutte le conoscenze e le esperienze che abbiamo a disposizione, pensare all’uguaglianza come si faceva decenni e secoli fa è discretamente assurdo.
Oggi noi, sempre meno massa generalista e sempre più produttori di contenuti (ne ho parlato qui: La scrittura ai tempi dell’hashtag), abbiamo la possibilità senza precedenti nella storia umana di esprimere ed evidenziare noi stessi, le nostre idee, al di là delle tradizionali identità collettive. In quest’ottica allora essere come gli altri è un’opzione certamente ancora attraente per tanti, ma destinata ad esserlo sempre meno ogni giorno che passa.
Quella che resta sempre valida è naturalmente l’uguaglianza dei diritti. Ma ormai è piuttosto chiaro che sociale e vitale hanno diversi percorsi, diversi metabolismi, e che un conto è il riconoscimento dei propri diritti e tutt’altro quello della propria personalità.
Sull’orizzonte di questo mutamento, uguaglianza significa non più essere considerati tutti allo stesso modo, ma essere considerati ciascuno a suo modo: credo che questo sia alla fine il nostro diritto fondamentale. Viverci ed essere vissuti non in quanto poveri o ricchi, cristiani o atei o musulmani, italiani o giapponesi o nigeriani, professori o contadini o commercianti, non secondo etichette e definizioni generaliste, ma per quella combinazione unica di spinte molteplici che ognuno di noi è.
Se ci pensate, questo – che dovrebbe essere il modello più naturale – è diventato appunto il più naturale grazie a Facebook, dove siamo abituati a metterci la faccia, a raccontare squarci in diretta di noi stessi e della nostra personale esistenza (cose, val la pena di ricordarlo, che prima dei social network non erano possibili).
Oggi che le tradizionali identità sociali non possono più assorbire questa proliferazione di biodiversità personali, un’uguaglianza al ribasso, che appiattisce le differenze del singolo, è il peggior torto che possiamo fare all’idea di uguaglianza. Affermata per annullare le differenze, ora – meraviglioso paradosso – l’uguaglianza può davvero realizzarsi se promuove e valorizza le differenze.
Se state pensando che evidenziare l’unicità di ciascuno porti allo sfrenato, dispersivo individualismo di milioni di persone tutte prese da se stesse, ecco no: se proprio in questa nostra epoca di esplosione delle singolarità l’idea di sharing, di condivisione, è diventata così centrale credo sia perché si comincia a capire che le sole forme di eguaglianza davvero potenti sono quelle che si stabiliscono fra umani con un forte senso di se stessi. Quando allora sentiamo dire la vecchia, retorica frase «siamo tutti uguali» possiamo davvero rispondere che no, non siamo affatto tutti uguali, anzi che siamo uguali se ognuno di noi sa di essere diverso e unico.