Game thinking, come rimettere il cliente al centro partendo dal gioco
C’è un articolo della Public Management Review in cui gli autori, Pollitt e Hupe, parlano di quelli che in letteratura vengono chiamati magic concepts. L’articolo prevalentemente concerne il mondo della politica e dell’amministrazione pubblica, ma si può applicare altrettanto bene in ambito aziendale.
Che cosa sono, innanzitutto, questi magic concepts? Di fatto, si tratta di una specie di mantra incantatore.
Sono concetti/parole che non possono e non vengono messi in discussione da nessuno, perché ammantati di un alone di vaghezza e positività indefinita, e per questo affascinante. Perché si possa parlare di magic concepts, sono fondamentalmente 4 le caratteristiche che non possono proprio mancare:
- Broadness o, semplicemente, vastità delle applicazioni e, in qualche modo, generalità del concetto
- Normative attractiveness: una sorta di appeal normativo legato alla connotazione positiva che deriva dall’uso della parola
- Implication of consensus: di fatto, i magic concepts non sono concetti binari, per cui è semplice identificare un bianco o un nero. Sono invece caratterizzati da una dimensione più complessa e continua. Per questo sono anche “trasversali agli schieramenti”
- Global marketability: questa è una categoria che si spiega da sola e dice molto del fascino, anche commerciale, insito nei magic concepts
Fatta questa premessa, possiamo tranquillamente affermare che uno dei concetti magici cari al business, del 2015 ma anche dell’anno appena iniziato, è quello di gamification.
Non c’è praticamente impresa o servizio che non tenti di implementare un servizio inserendo da qualche parte la ludicizzazione (italiano non troppo utilizzato).
La ludicizzazione/gamification è uno strumento utilissimo che, in sostanza, consiste nel modificare l’incentivo all’azione di una persona, o di un gruppo, proprio attivando quelle dinamiche del gioco che costituiscono il fulcro della motivazione.
Il problema, tuttavia, è che il gioco è di per sé indefinibile. Che cosa contraddistingue un gioco?
Le regole, forse?
Non tutti i giochi ne hanno e molte persone potrebbero invece giurare che l’essenza del gioco stia nella loro assenza.
Competizione?
Non tutti i giochi si basano su una classifica e un confronto.
Divertimento?
Non necessariamente chi gioca punta al divertimento.
Insomma, comunque la si voglia tirare, il gioco è una coperta sempre troppo corta. Ben venga, dunque, il tentativo di stimolare una persona ricreando, nel suo ambiente di lavoro, le dinamiche ludiche che poi la spingano a svolgere un’attività. Bisogna tuttavia stare molto attenti a non perdere di vista quello che è l’obiettivo aziendale.
Il percorso è chiaro: voglio offrire un dato servizio e voglio far sì che quante più persone possibile se ne servano. Per far sì che questo accada, una vera e propria ingegneria della viralità non esiste, mentre bisogna lasciare che professionisti veri, esperti di scienze comportamentali e game thinking, possano inserirsi nel processo e trovare le leve giuste con cui spingere le persone ad agire.
Gli esempi più felici di gamification riguardano prodotti o servizi del settore education: Oilproject, in Italia, è una piattaforma che sfrutta molto la dinamica del gioco per far sì che i suoi utenti si sfidino o sfidino se stessi nell’apprendere. La gamification, qui, sotto forma di pressione sociale e di engagement, può essere un’ottima leva per l’apprendimento.
Lo stesso dicasi per Duolingo, la app di fama mondiale per mezzo della quale milioni di utenti (una decina attivi) imparano le lingue divertendosi.
Il problema è che la gamification, intesa come concetto magico, diventa spesso un pretesto per stupire il pubblico di turno e mostrargli di essere sul pezzo, con il rischio, tuttavia, di perdere di vista l’obiettivo finale: creare un servizio, cioè, in cui l’utente sia al centro e i suoi bisogni siano soddisfatti in modo efficiente.
Non sempre ciò significa o richiede l’utilizzo del gioco: come detto all’inizio dell’articolo, la gamification è solo uno strumento tra gli altri per modificare la struttura degli incentivi che possono essere di natura diversa: a volte è il gioco, a volte una motivazione intrinseca che punti sullo slancio ideale, a volte il nudge (o spinta gentile) che sfrutti i limiti cognitivi per favorire un certo corso d’azione.
E altre volte pure il caro vecchio denaro. Pagami e farò ciò che mi chiedi. Just simple as that.
Serva da monito la storia di Foursquare, azienda che solo la settimana scorsa ha chiuso un altro round di finanziamenti milionari (stavolta, 45 milioni di dollari), pur vedendo il valore dell’azienda sul mercato dimezzato in un anno. Foursquare è alla ricerca del famoso, celeberrimo (e quasi altrettanto magico) modello di business.
È stata una degli early adapters della gamification, nel 2010, con l’obiettivo di costruire un database mondiale, e aggiornato in real-time, di locali, ristoranti e molti altri servizi al consumo. Effettivamente, il numero di utenti è cresciuto fino a raggiungere la cifra abbastanza impressionante di 50 milioni, con tassi di crescita del 1600% su base annua. Il sistema del check in, con la possibilità di diventare mayor (sindaco) di un bar o di un pub, è stato una molla efficacissima per la diffusione virale della app.
Eppure…
Eppure, nel corso del tempo, Foursquare ha visto ridursi drasticamente i check-ins giornalieri, con un utilizzo altamente ridotto della piattaforma.
Il fatto è che il meccanismo ludico, a volte, rischia di funzionare troppo bene: se le persone perdono di vista l’obiettivo, che in teoria dovrebbe comunque essere la condivisione nella propria cerchia di amici dei luoghi che si frequentano sul serio, e finiscono con l’attivare il check in solo per ricevere un badge o accumulare punti, il potenzialmente ricchissimo database di Foursquare diventa in realtà estremamente distorto, con poche se non pochissime possibilità di vendere queste informazioni agli investitori che, alla fine, sono i clienti ultimi di Foursquare.
Per questo, nella primavera 2014, il CEO Dennis Crowley ha annunciato e operato lo split della compagnia in due app distinte, Swarm e Foursquare. Quest’ultima si è trasformata in una comunità il cui scopo è trovare nuovi posti e socializzare la scoperta con i propri amici, con buona pace di sindaco e giunta comunale. La perdita della dimensione ludica ha avuto però un impatto e lo dimostrano gli aggiornamenti della app, in cui la Mayorship, uscita dalla porta, è rientrata dalla finestra sotto forma di Expertise: si può ottenere la gratificazione e riconoscimento di esperto in funzione, appunto, di un utilizzo costante della app.
La gamification funziona soprattutto quando, una volta individuata la leva motivazionale che spinge l’utente a utilizzare un dato servizio o prodotto, si riesce a combinare la stessa leva con gli obiettivi di business dell’azienda. Insomma, non basta, a volte, avere una semplice idea brillante, in grado di costruire efficacemente e di viralizzare un contenuto. E il perché è presto detto: non è automatico che milioni di utenti si traducano, alla fine, nel raggiungimento del risultato economico o sociale che ci si era prefissi in partenza. Questo andrebbe tenuto a mente per disinnescare l’effetto potenzialmente nefasto dei magic concepts.