5 cose che dovevamo imparare dal primo lockdown
La data del 9 marzo 2020 sarà riportata sui libri di storia del nostro Paese. Quel giorno il Primo Ministro Conte annunciò che era stata decretata una quarantena nazionale per fronteggiare l’epidemia di COVID-19 e che chiunque non fosse esentato per inderogabili necessità di lavoro, urgenze sanitarie o altre cause di forza maggiore, doveva rimanere in casa ed evitare ogni spostamento e incontro.
Una decisione che ha segnato le vite di molti e che ha spesso determinato convivenze difficili o, al contrario, mesi di totale isolamento che hanno provato pesantemente, anche i meno avvezzi alla vita sociale e alla mondanità. Impossibile per chiunque immaginare che le nostre città potessero da un giorno all’altro svuotarsi, rimanere semideserte e che tante persone potessero rimanere tappate in casa per così tanto tempo, ma questa condizione surreale si è verificata davvero ed è durata per oltre 2 mesi, liberando milioni di italiani soltanto il 18 maggio, all’alba di quella che fu definita fase 3 dell’emergenza.
Oggi facciamo quasi fatica a ricordare quei giorni anche se pare potremmo ritornarci. Ma tutti abbiamo chiaro in mente un dettaglio: nei primi giorni del lockdown era convinzione diffusa che le persone ne sarebbero uscite migliori, che avremmo imparato qualcosa di importante da questa tragedia e che le nuove abitudini legate a quei giorni sarebbero durate nel tempo.
Cosa avremmo dovuto imparare da questa tragedia?
Più attività fisica, più attenzione all’alimentazione, più tempo in famiglia, meno stress… in quei giorni abbiamo fatto decine di ottime cose, che prima di allora avevamo osato elencare soltanto nei buoni propositi di fine anno, ma che anche stavolta si sono per lo più volatilizzati alla riapertura delle città e delle loro attività, così come altre fondamentali lezioni, tra cui:
Nessun uomo è un’isola (John Donne, 1624)
Ultimamente abbiamo ascoltato questa frase nella pubblicità di una catena di supermercati, ma questa perla viene da lontano e non è mai stata raccolta e coltivata nel corso dei secoli. Al contrario, uno dei capisaldi della modernità è proprio l’individualismo, che ci ha resi incapaci di solidarietà (che simuliamo nelle raccolte fondi che i media ci propinano in dosi massicce) e di slancio verso il bene comune. Durante il lockdown avremmo dovuto capire che questo aspetto è assolutamente centrale e che nessuno può davvero star bene, essere al sicuro e guardare con fiducia al futuro se l’interesse dei singoli è il paradigma su cui si basa la nostra civiltà.
L’uomo fa parte della natura, che non è un suo possedimento
Poco importa se si creda che il virus SARS-CoV-2 sia stato sintetizzato in laboratorio o abbia fatto un salto di specie dai pipistrelli all’uomo, diventando pericoloso per la nostra salute. Tutto ciò che facciamo ha un impatto diretto sulla natura e sulla biosfera e quell’impatto (causa) avrà sempre e necessariamente ricadute su di noi (effetti). Questo, peraltro, vale anche per moltissimi altri ambiti e sfere in cui abbiamo disimparato a riconoscere cosa sia causa e cosa effetto, finendo per guardare sempre il dito e mai la luna.
Con poco si vive, con niente si muore
Durante il lockdown abbiamo comprato tonnellate di pasta, farina, lievito e beni di prima necessità, sbagliando spesso le dosi ma centrando un concetto fondamentale: le cose che contano davvero sono quelle che spesso diamo per scontato, perché siamo convinti che nessuno potrà portarcele via. Pessimo errore, che stiamo continuano a fare.
Non abbiamo superpoteri, ma molto dipende da noi
Sono le nostre scelte a fare le differenze. Non sempre, ma molto spesso e molto più di quanto siamo portati a ritenere. Per capirlo abbiamo dovuto essere chiusi in casa senza possibilità di scegliere, ma appena ce l’hanno parzialmente restituita siamo tornati a preferire la strada già segnata, comoda, apparentemente più sicura.
Andrà tutto bene
La pandemia ci ha fatto dimenticare guerre, calamità naturali sempre più incombenti e molte altre piaghe dell’era moderna, ma ci ha costretti all’ottimismo. Ci siamo sentiti all’angolo, in pericolo, prossimi alla perdita di affetti, lavoro, sicurezza economica, prospettive, ma abbiamo deciso di ripetere ossessivamente un mantra difficilmente smentibile (anche da chi ha perso davvero molto). Siamo ancora qui, è questo che conta, ma per la prima volta abbiamo temuto che potesse non essere più così. È su questo che dobbiamo lavorare davvero, se non vogliamo che la prossima emergenza sia l’ultima che la storia di questa civiltà ricordi.