Yoga di Carrère e l’importanza di imparare a convivere con noi stessi
L’uscita di un libro di Carrère è sempre un evento. Soprattutto considerando che lo scrittore francese da anni si contende insieme a Houellebecq le prime pagine dei giornali transalpini. E infatti in Francia, Yoga è stato un evento, non solo perché ha dominato la rentrée littéraire francese, ma anche perché l’ex moglie lo ha accusato di essere un bugiardo in una lunga lettera a Vanity Fair (non sarebbe andato sull’isola di Leros dopo il ricovero, non ci sarebbe di certo stato due mesi, e non ci sarebbe nemmeno andato da solo).
Scritto nell’urgenza di una gigantesca e presunta crisi personale, come un suicidio simbolico, Yoga si sviluppa su quattro anni della vita dello scrittore, devastati da una depressione acuta che lo porta a essere internato in un ospedale psichiatrico parigino, il Sainte Anne, per quattro mesi. Non è un romanzo, ma una terapia sotto forma di scrittura, il tentativo di liberarsi di un momento doloroso e di un’identità dolorosa (la sua), iper-narcisistica e al limite del suicidio, partendo dal racconto di un ritiro di meditazione interrotto dall’attentato a Charlie Hebdo, in cui perde la vita un caro amico. E infatti come sempre Carrère mescola avvenimenti dell’epoca a storia personale (sempre presunta) come la spedizione all’isola di Leros con cui interrompe delle vacanze apparentemente tranquille in Grecia per andare ad aiutare i migranti, e la morte del suo editore.
Come l’autore ha raccontato anche al Corriere della Sera, il progetto era quello di un libro “sottile e sorridente” su una pratica che accompagna lo scrittore da più di venticinque anni. Ma nella stesura irrompe il terremoto della depressione e la storia della sua formazione, tanto che il libro diventa una discesa nella dissoluzione personale, l’osservazione della perdita dell’io durante la depressione. E come sempre Carrère procede per pezzi, ricordi, stralci di qualcosa interiore ed esteriore.
Parliamo di yoga, una disciplina che mira a unire emozioni opposte, che ci si costringe a sopportare noi stessi e a provare a capirci. Perché non è solo un insieme di esercizi ginnici, ma un esercizio mentale sui nostri pensieri, che Emmanuel Carrère descrive con grande eleganza nel suo ultimo libro. Come lui, anche noi potremmo infatti fare un passo indietro rispetto al magma di ricordi e ansie che un tempo ci hanno resi introversi, paranoici, egoisti, cercando di capire che vivere accanto alle nostre paure, nevrosi e demoni non è così difficile, si può fare e si può anche migliorare. Che se possiamo ancora osservarci anche quando la malattia ci rode fino a non farci esistere più allora non è tutto perduto, c’è un modo per capire. Carrère, così abituato nei suoi libri ad osservarsi ed osservare attraverso sé stesso i suoi personaggi (come L’avversario sul caso di Jean-Claude Romand, che stermina la famiglia per non confessare di essere un impostore, o Limonov, sulla storia dell’agitatore russo idolo dell’underground sovietico ai tempi di Breznjev) si guarda precipitare senza rete, compiendo un esercizio di verità su sé stesso, anche se è cruda e fa male, arrivando alla conclusione che spesso con i nostri traumi dobbiamo solo imparare a viverci insieme.