A proposito di niente o come imparare a prendere la vita meno sul serio
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A proposito di niente è il titolo dell’autobiografia di Woody Allen, scritta a 84 anni e uscita in Italia per La Nave di Teseo. Un racconto personale, fatto di paradossi come il titolo stesso: è un “niente” di 400 pagine quello del cineasta americano, del regista che ha segnato almeno due decenni di storia del cinema ed è ancora in piena attività, visto che il testo si conclude parlando di Rifkin’s Festival, il film che ha da poco finito di girare in Spagna. «Non ho intuizioni, pensieri nobili, nessuna comprensione della maggior parte delle poesie che non inizino con “Le rose sono rosse, le viole sono blu”», scrive. «Quello che ho, tuttavia, è un paio di occhiali con montatura nera, e penso che siano queste specifiche, combinate con un talento per appropriarsi di frammenti di fonti erudite per dare l’impressione ingannevole di sapere più di quanto io sappia in realtà».
Ecco, il primo “niente”, simbolo e metafora. La sua non è una vita avventurosa, bensì segnata dalla routine e dalle rigide regole di lavoro, dalla nevrosi che contraddistingue tutti i suoi personaggi principali. Ma è anche un “niente” intimo che riguarda la percezione di sé, visto che l’autore non si è mai considerato un genio né un intellettuale, ma solo una stella minore rispetto ai suoi maestri come Ingmar Bergman e Tennessee Williams: «A sentire mia madre avrei dovuto essere capace di spiegare la teoria delle stringhe. Ma lo vedete anche dai film che ho fatto: alcuni sono divertenti, ma nessuna delle mie idee sarà mai la base di una nuova religione». E, contrariamente alle apparenze, non è così incapace negli sport.
È la diminuzione alleniana di sé, tematizzata dalla maggior parte delle sue pellicole, non una sorta di atarassia, quanto di sfiducia totale nell’universo (è il terzo “niente”, quello che per Allen segue la vita, forte dell’ateismo radicale abbracciato fin da ragazzo, malgrado la fede della famiglia ebraica comunque e sempre amata).
L’autobiografia di Woody Allen si apre come un film di Woody Allen, simile a Radio Days: racconta la sua nascita e l’infanzia, chi erano i suoi genitori, in uno dei noti ritratti famigliari tanto paradossale quanto esilarante. «Mamma aveva cinque sorelle, una più brutta dell’altra – e lei verosimilmente le batteva tutte. Lasciatemelo dire: la teoria freudiana secondo cui noi uomini desideriamo inconsciamente uccidere nostro padre e sposare nostra madre casca miseramente nel caso della mia genitrice». Eccolo, Allen. Quello umorista di Io e Annie, Basta che funzioni, La rosa purpurea del Cairo. E soprattutto di Melinda e Melinda, la tragedia e la commedia: «Mia [Farrow] si è divertita ad adottare, come se stesse acquistando un nuovo giocattolo», scrive. «Le piaceva la reputazione da santa, la pubblicità, ma non le piaceva crescere i bambini e non si prendeva davvero cura di loro». E infatti molto spazio è dedicato alla storia dolorosa, naturalmente nella sua versione, di come sia diventato oggetto di una causa milionaria e delle accuse di molestie sulla figlia adottiva di Mia, Dylan Farrow, tornata negli ultimi anni malgrado due indagini finite con il non luogo a procedere.
E poi in A proposito di niente, Allen è semplicemente Allen. Che parla dei suoi film (poco), senza spiegarli nel dettaglio, raccontando alcune riprese e rapporti con gli attori, si dice meravigliato di certi riscontri (non si aspettava il successo di Manhattan e il fallimento di Hollywood Ending), sostiene che La ruota delle meraviglie sia il suo film migliore.
Ma nonostante questo, o forse proprio per tutto questo, dal suo memoir emerge la difficoltà di Allen nel mantenere le amicizie, conoscere nuove persone, “piacere agli altri”, tra ex amici, ex colleghi a Hollywood che lo hanno denunciato pubblicamente solo per venire incontro alle richieste del pubblico. Ed è improbabile che il libro influenzi coloro che hanno già deciso. Tanto, che riflettendo proprio su questo, e su quello che di lui rimarrà in futuro, il regista ammette «piuttosto che vivere nei cuori e nella mente del pubblico, preferisco vivere nel mio appartamento». Essere sempre sé stessi, prendere la vita non troppo sul serio.
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