Un Notturno senza Oscar
Oscar o non Oscar, vale la pena guardarlo. Notturno, il film di Gianfranco Rosi, è stato doppiamente deluso nella corsa alla statuetta più desiderata del mondo. Già in concorso a Venezia 2020, scelto dall’Italia per la selezione come miglior film straniero, è uscito subito di gara, ma, rientrato nella short list dei quindici migliori documentari, si sperava ancora potesse farcela e battersi nella cinquina finale di quella categoria. E invece no, il sogno si è fermato. La notte fadica del 25 aprile, con due mesi di ritardo causa pandemia e per la prima volta in luoghi diversi oltre allo storico Dolby Theatre, l’Italia avrà dunque solo due nomi da tifare: Laura Pausini per la migliore canzone originale con Io sì, colonna sonora del film La vita davanti a sé in cui Edoardo Ponti dirige la madre, la mitica Sophia Loren, e Pinocchio di Matteo Garrone per il miglior trucco e parrucco, curato da Mark Coulier, Dalia Colli e Francesco Pegoretti.
Ma altre celebrazioni, se così è lecito chiamarle, rientrano nell’orizzonte di Notturno. Meno di un mese fa, il 15 marzo 2021, cadeva il decimo anniversario dall’inizio della guerra in Siria. Se n’è parlato quel giorno, poi silenzio, per un conflitto che pare rimosso da news e coscienze globali. Quel territorio il regista romano – autore di due lavori pluripremiati, Sacro GRA, primo documentario nella storia del festival di Venezia a vincere il Leone d’oro, e Fuocammare, Orso d’oro a Berlino – lo ha indagato a lungo: ha girato per tre anni lungo i confini di Iraq, Kurdistan iracheno, Siria e Libano, puntualizza una didascalia iniziale. Non per mostrare bombe, morti e città distrutte: quello lo ha fatto, e dall’interno, un altro documentario, per giunta autobiografico e in presa diretta, il bellissimo Alla mia piccola Sama di Waad al-Kateab. A Rosi interessa altro. La quotidianità inconcebile, eppure ormai piegata a una banalità del male diventata abitudine, di chi vive tra i confini più caldi del Medio Oriente.
La guerra è allusa nella sequenza d’apertura, un campo lungo a camera fissa su un addestramento militare, spezzato ritmicamente dal passaggio di gruppi di soldati e dalla loro cantilena marziale. Ma poi ne vedremo solo gli effetti. Su madri in lutto che piangono i figli persi in combattimento, adolescenti costretti a inventarsi lavoretti umilianti per sfamare i fratelli, orfani sopravvissuti della comunità yazida, sterminata dall’Isis, che, pur al sicuro in un centro di sostegno psicologico, non riescono a parlare senza balbettare per gli orrori a cui hanno assistito. E sull’ambiente, con pozzi di petrolio che bruciano all’orizzonte di paludi dove cacciatori di frodo cercano selvaggina nei canneti.
“Notturno – scrive il regista – è un film politico, ma non vuole affrontare la ‘questione politica’. Non indaga le cause del conflitto né le molteplici problematiche religiose e territoriali in gioco. Ho voluto semplicemente rimanere il più vicino possibile alle donne, agli uomini, ai bambini la cui ostinata sopravvivenza suona come la metafora dell’assoluto che più mi appassiona: l’essere umano”. Per farlo occorre tempo, tanto tempo. Un lungo lavoro preliminare, una conoscenza che diventa fiducia reciproca: “Solo alla fine – spiega Rosi – sento che è giunto il momento di tirare fuori la telecamera. È un passaggio delicato. Una parte di ciò che prima avevo colto svanisce inesorabilmente perché il soggetto filmato si trasforma, diventa attore. Fortunatamente, ho imparato con il tempo ad accettare questa perdita e ora so che, in quel momento, la realtà filmata diventa più vera del reale. La persona diventa personaggio. Il racconto diventa cinema”.
Il soggetto diventa attore, il racconto cinema. Qui sta la cifra del regista, e per molti il suo limite. Troppo patinate le immagini, troppo studiate le inquadrature, troppo forzate le vicende fissate dalla telecamera. Messinscena, non realtà. Se i confini tra Paesi prostrati dalla stessa violenza non sono mai citati nel film, altrettanto sembra svanire, a detta di alcuni critici, il limite tra morale ed estetica: “Esiste, e se esiste, quale è, a proposito di confini, il limite tra estetica e etica della rappresentazione?”, scrive Alessandro Uccelli su Cineforum. Allo spettatore l’ardua sentenza.