Tra quadro e inquadratura. Come il cinema racconta l’arte dei grandi pittori
Dipingere una inquadratura
Con il ritorno in grande spolvero delle mostre d’arte, dopo la lunga parentesi del Covid (con riduzione drastica dei turisti e faticose visite nelle gallerie con mascherina al volto), si riapre anche uno dei rapporti di più lunga data tra due mezzi espressivi: il cinema e la pittura. Affrontata più volte anche attraverso dotte trattazioni, la relazione tra grande schermo e quadro assume molti diversi connotati. Da una parte la nozione stessa di fotogramma può essere considerata come un quadro in movimento, e non sono pochi i cineasti che hanno costruito le proprie inquadrature come dipinti – per citare alcuni grandi registi, impossibile non citare almeno Stanley Kubrick con Barry Lyndon, Peter Greenaway in tutti i suoi film, Wes Anderson con la sua mania per il design grafico delle immagini o Antonioni e Pasolini quando citano rispettivamente la pittura metafisica e l’arte manierista.
Dall’altra non tutti sanno che – nell’epoca primitiva del cinema, a cavallo tra Otto e Novecento – quando ancora non era stato inventato il colore nei film, i registi dell’epoca dipingevano a mano (fotogramma per fotogramma!) le pellicole. Si trattava di un lavoro certosino, che avvicinava il mestiere della Settima Arte a quello più tradizionale, con tanto di pennelli, tecniche specifiche, chimica della tavolozza. Ne sortivano spesso effetti che oggi ci appaiono ingenui (per esempio i colori che smarginano dai confini in Viaggio sulla Luna di Méliès del 1902), ma che in verità affascinano per quella che oggi si chiama “archeologia della modernità”.
La vita dell’artista
Ovviamente un capitolo a parte meritano le biografie, che sono tra le più adatte alle sperimentazioni formali. Non di rado, chi realizza la storia della vita di un pittore tende a cercare uno stile che si avvicini il più possibile al suo soggetto. Per esempio Frida di Julie Taymor imita i colori dell’artista messicana; Basquiat di Julian Schnabel (un artista omaggiato da un altro artista) si diletta ad alludere a uno stile cromatico quasi da graffitaro; Love is the Devil di John Maybury “brucia” i margini delle inquadrature ispirandosi al lavoro dello stesso artista di cui traccia la biografia, Francis Bacon, e così via.
Altre volte, la biografia cerca di evidenziare soprattutto lo spirito anticonformista del genio, come nel caso recente di Caravaggio diretto da Michele Placido, o nel sorprendente Turner di Mike Leigh, nel quale il pittore romantico viene descritto come un burbero solitario, che grugnisce e ama i piaceri carnali, un tipo da cui non ci si aspetterebbe una tale sensibilità paesaggistica. Ci sono poi artisti così grandi che non possono essere raccontati una sola volta: Van Gogh ha meritato almeno una trasposizione hollywoodiana (Il tormento e l’estasi con Kirk Douglas) e una europea (Van Gogh con il volto spigoloso e perfetto di Willem Dafoe); e il nostro Ligabue ha ottenuto prima un famoso sceneggiato RAI con Flavio Bucci e di recente una nuova biografia di Giorgio Diritti (Volevo nascondermi).
Visitare un film
Nel periodo più vicino a noi, però, è successo qualcosa di sorprendente, che non riguarda più le biografie romanzate ma i documentari, genere solitamente considerato di nicchia (se non noioso). Ebbene, la tradizione si è ribaltata e oggi molti spettatori appassionati – oltre a frequentare le mostre – “visitano” i film. I casi di Botticelli a Firenze o Munch – Amori, Fantasmi e Donne Vampiro sono solo i più recenti casi di distribuzione di film al tempo stesso didattici e poetici che usano le immagini in movimento per illustrare vita e opere degli artisti. Talvolta, il documentario riguarda addirittura il percorso di visita di una grande mostra o di un grande museo, magari geograficamente lontanissimo, così da garantire a chi guarda la possibilità di conoscere senza l’impegno di un lungo e costoso viaggio (anche se, ovviamente, trovarsi di persona di fronte a un’opera d’arte rimane un’esperienza insostituibile). Il fascino dell’arte per l’arte – e dunque non per sbirciare la vita privata del creatore – affascina comunque anche i grandi registi. Si consiglia, per esempio, di vedere o rivedere Arca russa di Sokurov, in cui ci viene raccontata (con un’unica sequenza di un’ora e mezza) la storia del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo dall’epoca degli Zar fino alla sua configurazione come Museo dell’Ermitage, uno dei più belli del mondo. In epoca di guerra, riscalda il cuore pensare ai tesori dell’umanità là custoditi.