Torinodanza: la nuova danza viene dall’Africa
Eurocentrismo addio, adesso cultura e arte parlano (anche) altre lingue. E dall’Africa, per troppo tempo considerata esclusivamente terra di conflitto e desolazione, arrivano energie nuove alla conquista dei nostri palcoscenici. Succede con la danza contemporanea, territorio dove si stanno affermando sempre più numerosi coreografi e performer, ormai presenza sempre più frequente anche nelle principali rassegne di casa nostra. Un esempio è il programma di Torinodanza (torinodanzafestival.it): il festival di danza contemporanea più prestigioso d’Italia, in corso fino al 26 ottobre alle Fonderie Limone, dedica un focus proprio all’Africa, orizzonte di fermenti creativi e novità da scoprire.
Hip hop e memorie colonialiste, street dance e ritmi tradizionali si intrecciano nei lavori dei tre artisti invitati dalla direttrice artistica Anna Cremonini per esplorare il continente con l’intento di ampliare i confini del festival. La scommessa più grande è quella sul senegalese Amala Dianor, che porta in scena accanto a sé la nuova generazione di artisti africani trasmigrati in Europa. Residente in Francia, artista associato alla Maison de la Danse de Lyon e oggi a capo di una sua compagnia, Dianor ha mosso i primi passi sulla strada, con l’hip hop, e oggi interpreta le contaminazioni tra stili e modalità produttive occidentali con le tradizioni e le contraddizioni del Sud del mondo. Una complessità che l’artista sintetizza così: «A volte è difficile sapere dove stiamo andando, ma molto spesso sappiamo da dove veniamo». Ne è un esempio lo spettacolo Siguifin, creazione collettiva realizzata insieme ai giovani coreografi Alioune Diagne, Naomi Fall, Jain Souleymane Koné e a nove danzatori provenienti da Burkina Faso, Mali e Senegal, protagonisti di un affresco di gruppo che raccoglie le migliori energie del panorama giovanile dell’Africa occidentale.
Accanto a questo spettacolo, Dianor propone il solo Man Rec (il titolo significa “solo io” in wolof, la lingua più parlata in Senegal): un dialogo tra danza urbana, danza contemporanea e danza africana, ossia i tre universi in cui è cresciuto e che hanno segnato le sue origini artistiche, e anche il lavoro che lo ha portato all’attenzione internazionale. Di questo assolo è nata una versione femminile, Wo-Man, che il festival presenta in chiusura della personale su Dianor insieme al trio Point Zéro, che il coreografo interpreta con due colleghi e definisce «un invito a danzare di tre amici che ritrovano il cammino che ognuno di loro ha percorso attraverso le diverse estetiche che compongono le loro storie artistiche».
Dal Senegal ci si sposta Burkina Faso con Salia Sanou. Artista impegnato e militante, attivista nella difesa dei diritti civili delle minoranze, da sempre indaga i temi dei confini, dell’esilio, dell’identità e dell’alterità. Al festival porta in scena D’un rêve, spettacolo in forma di musical che rievoca la lotta per la liberazione degli schiavi neri e riflette sulla condizione dei migranti di oggi (l’ispirazione viene anche dai workshop di danza che Sanou ha condotto nei campi profughi del Burundi e del Burkina Faso, come parte del progetto Refugees on the Move avviato dalla African Artists for Development Foundation), ma racconta anche come la cultura pop africana abbia contribuito a scrivere un capitolo di riscatto del suo popolo.
Viene invece dal Sudafrica Gregory Maqoma. Danzatore e coreografo di lunga esperienza, nel programma lo si è visto in Broken Chord, una sorta di duello musicale in cui si confronta in scena con quattro cantanti del coro Torino Vocalensemble. L’ispirazione affonda nella memoria del suo Paese. Lo spettacolo rievoca infatti la storia dell’African Choir, una formazione corale composta da giovanissimi cantanti sudafricani che si esibì con successo a Londra tra il 1891 e il 1893, quando il Sudafrica era al centro di campagne di conquista britanniche. Nonostante la popolarità, di quel coro e delle sue composizioni si perse presto traccia. Per la società bianca di allora, rigida e razzista, erano un fenomeno da baraccone, e non gli esponenti di una tradizione musicale dotata di una sua dignità.