Come capire la solitudine grazie al saggio di Mattia Ferraresi
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Fare i conti con sé stessi, nella dimensione di individui parte di una collettività, è un esercizio ambizioso: significa dirsi pronti a mettere in discussione gli equilibri e le distanze che ci tengono insieme, a costo di perdere il senso dell’orientamento. In meno parole significa rischiare, ed è in questa direzione che Mattia Ferraresi si è mosso con il suo ultimo saggio, Solitudine. Nel libro edito da Einaudi il giornalista de Il Foglio si concentra su un fenomeno che – lascia intendere fin da subito – considera parte integrante e persino sostanziale della forma mentis dell’uomo occidentale. Il suo percorso si articola in tre tappe: inizia illustrando il “quadro clinico”, ovvero l’insieme di modalità tramite le quali il morbo della solitudine si dispiega; prosegue con un tentativo di individuarne l’origine attraverso un’analisi storica, durante la quale si appoggia ad alcuni classici della filosofia politica; e conclude con una profonda riflessione di carattere spirituale, proponendo «la ricerca di un tu che possa rispondere adeguatamente al malessere che pesa sul presente».
La tesi che Ferraresi sostiene ed argomenta nella seconda parte è probabilmente quella più significativa: se la solitudine è un problema drammaticamente serio nella società del Ventunesimo secolo (lo è non soltanto per l’autore o per la casa editrice, ma anche e soprattutto per un ampio e crescente filone della ricerca scientifica), il problema va ricercato nella deriva per così dire maligna di una certa idea di libertà; quella stessa idea che da secoli permea la società e la cultura occidentale, e che più di ogni altra ha contribuito a dargli una forma. Un passaggio dall’introduzione è particolarmente esplicativo: «Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano», scrive Ferraresi, «l’uomo moderno si è ritrovato solo». Sta facendo ed ha fatto a pezzi ogni forma fisica di mediazione: «Ordinamenti, strutture, sistemi, partiti, chiese, leggi, abitudini, tradizioni, dogmi, codici, regimi, opinioni, usanze, costumi e perfino assetti biologici». E una volta liberatosi di tutto, ha perso al contempo quei punti di riferimento indispensabili al suo orientamento.
L’intento di Ferraresi non è tanto quello di orchestrare un processo al liberalismo, reo di aver condotto l’uomo occidentale ad un punto di non ritorno, stordendolo con l’inganno, quanto piuttosto quello di costruirgli una critica positiva, di metterne in evidenza questo limite strutturale; o per usare le sue parole, «problematizzare laddove tutto cospira a semplificare».
Tra le pagine di Solitudine non emerge un rinnegamento dell’idea di libertà, casomai un certo scetticismo sulla sua sacralizzazione: l’individuo moderno è meno soggetto a vincoli e obblighi rispetto al passato, suggerisce Ferraresi, ma questo stato è lungi dal garantirgli una strada sicura verso la realizzazione – e quindi, in termini più generici, verso la felicità.
Il saggio si chiude con qualcosa di simile ad una proposta di soluzione. Se la solitudine «si configura come assenza di significato», come l’autore argomenta ponendo le basi per l’ultimo capitolo, allora il senso di comunità che scaturisce dall’esperienza religiosa può tornare ad essere uno strumento valido per recuperare quel significato. «L’esperienza del sacro», scrive Ferraresi, è d’altronde quella che «più esplicitamente di ogni altra pretende di fornire risposte alle domande sul senso della vita degli uomini e dell’universo che abitano». Una provocazione non banale, se associata come per l’appunto in Solitudine alla rivendicazione della de-secolarizzazione cavalcante, un “ritorno del religioso”, che l’autore individua nell’Occidente moderno. Senz’altro un’interpretazione dalla quale si può dissentire, ma che va tenuta in considerazione in quanto componente di un più ampio e coraggioso tentativo di districarsi nei meandri dello stato esistenziale dell’uomo contemporaneo. Un tentativo che è pane per i denti di chi ha l’ambizione e il coraggio di mettere in discussione le proprie certezze.
Simone Torricini
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