Il destino di Procida, al pari di quello di qualsiasi altra isola, è legato indissolubilmente al mare che la circonda e lascia ritenere che gli indigeni, che l’abitarono fin dai secoli XV-XII a. C., non si limitarono ad assistere al passaggio delle navi micenee che sostavano a Vivaro, prima di recarsi alla vicina Aenaria, l’odierna Ischia. D’altronde, in età romana i procidani erano dediti alla pesca, probabilmente, anche con l’impiego delle cetariae, antenate delle moderne tonnare, le quali faranno la loro apparizione in età angioina, quando nell’isola nascerà anche il primo cantiere. In ogni caso, fra il V e il X secolo d. C., una parte consistente della popolazione già praticava la marineria, pur se, fino al secolo XVIII, le angherie feudali e i pericoli della guerra di corsa barbaresca le imposero gravi limitazioni alla navigazione.
Un episodio di mutualità marinara ante litteram, fra i primi in Italia, caratterizza Procida nel secolo XVII: nel 1617, infatti, i padroni di imbarcazioni dell’isola danno vita al Pio Monte dei Marinari, con la finalità di riscatto dei naviganti fatti prigionieri dai pirati barbareschi e di dotazione delle figlie dei marinai indigenti.
Sotto la monarchia borbonica, gli scafi procidani solcano le acque dell’intero Mediterraneo, per trasportare viveri e legname, e già sul finire del secolo XVIII cominciano a spingersi nell’Oceano Atlantico, raggiungendo il Baltico e perfino le coste dell’America meridionale. Ai primi del secolo successivo, poi, cominciano ad affacciarsi alla ribalta le prime famiglie armatoriali (Mazzella, Assante, Fiorentino, Scotto di Pagliara, Nugnes), connotate dalla particolarità che spesso gli armatori stessi si ponevano al comando delle loro navi, fatte oggetto, non di rado, degli assalti dei pirati barbareschi. Peraltro, i rischi derivanti da tali aggressioni, sommati a quelli della navigazione oceanica, determinano la stipula di contratti di assicurazione, limitati talvolta soltanto al carico, con ben due compagnie fondate nell’isola.
Sul piano della cultura marinara, si segnala, da una parte, la compilazione del primo Codice marittimo (1781), rimasto allo stato di mero progetto, per opera del giurista Michele de Jorio, e, dall’altra, quella di un Catechismo nautico (1788), per opera del sacerdote Marcello Eusebio Scotti, che sarà condannato, undici anni dopo, alla pena capitale per avere partecipato attivamente alla Repubblica napoletana. Nel 1833, poi, viene fondata la prima Scuola comunale di navigazione, che, con l’avvento dell’Unità d’Italia, è convertita in Regia scuola di nautica e costruzione navale (1866), mentre le navi procidane solcano i mari dell’intero Universo e si consolida il fenomeno delle famiglie armatoriali, tra le quali spiccano quelle dei Guida, dei Galatola, dei Mazzella di Bosco, dei Mazzella di Stelletto, dei Fevola, dei Lubrano di Scampamorte, degli Scotto Lachianca e dei Mignano.
Il tramonto della marineria procidana coincide, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del successivo, con il prevalere della navigazione a vapore su quella velica, poiché pochissimi armatori sono disposti a impegnare il loro capitale in un’operazione di ammodernamento della flotta; né produce effetti positivi la riduzione delle imposte gravanti sul «ceto marinaro», deliberata dal Comune di Procida nel 1923: i procidani preferiscono navigare alle dipendenze di armatori di altre località o, tutt’al più, acquistare da costoro alcuni carati delle loro navi, e si rivela di breve durata la ripresa della marineria dell’isola verso la metà del secolo, quando subiscono un incremento, anch’esso effimero, la pesca e la cantieristica. Sul piano dell’istruzione marinara, accanto all’Istituto nautico nasce la Scuola professionale E.N.E.M., che licenzia padroni marittimi e motoristi, ma che durerà soltanto fino alla fine del secolo XX.
L’estrema contrazione della marineria procidana è significata, infine, dall’attuale presenza sulle navi soltanto di ufficiali – sia di coperta, che di macchina – procidani, mentre a escludere la cosiddetta “bassa forza” provvedono i manipoli di extracomunitari, assoldati al risparmio dagli armatori.