Il cinema asiatico e lo scambio culturale: scoprire un Paese grazie ai film
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La crisi economica conseguente al Coronavirus ha colpito sensibilmente il mondo dello spettacolo e, fra le sue attività, non è scampata nemmeno la grande industria cinematografica. Ne hanno risentito non solo gli addetti ai lavori, bensì pure i cinefili, gli appassionati, il pubblico, e tutti coloro che vivono del gusto del cinema, improvvisamente privati di questa grande fonte di intrattenimento. Ma in realtà, proprio questo coro di voci denuncia un’attrazione e un interesse che vanno oltre la superficiale idea di cinema come macchina industriale. Negli anni, infatti, tramite correnti storiche e rivoluzioni più o meno esplicite, esso è diventato uno strumento capace di connettere culture lontane e filosofie di ogni tipo, promuovendole in tutto il mondo.
Questo fenomeno della “globalizzazione” della cultura grazie al cinema aveva riscosso visibilità recentemente, proprio negli ultimi mesi prima del coronavirus. Era il caso del film premio Oscar Parasite, di Bong Joon-ho, che ha introiettato il cinema asiatico al centro del dibattito culturale. Ma Parasite non è stato privilegiato solo per il messaggio umano o la straordinaria tecnica realizzativa: il film sudcoreano è una cartina di tornasole sulla realtà sociale di quel Paese, diventandone, in pratica, un prodotto culturale. Parasite, riprendendo l’eco etnografico dei media studies, ha ricordato come il cinema possa essere uno strumento di empowerment per le culture distanti – in questo caso asiatica –, e quindi esportare – sullo schermo – gli aspetti fondamentali di una certa comunità.
Il rigido classismo della Sud Corea ha colpito l’attenzione degli spettatori di tutto il mondo, e proprio per la riproposizione di questo tema, se ne è sviluppata al riguardo una letteratura e un interesse trasversale – la questione degli spazi, i problemi sociali, eccetera. Grazie al cinema, tutto il mondo asiatico che era abitualmente visto come distante e concettualmente irraggiungibile, è diventato invece vicinissimo all’Occidente. E oggi, addirittura, ne emuliamo i concetti o gli stili di vita.
La realtà narrata da Bong Joon-ho è però l’ultima di una serie di altri (più o meno) fortunati film asiatici usciti al cinema negli anni. Infatti, presente anche su Amazon Prime Video, un film con una forte carica narrativa è The Farewell, titolo inglese che sostituisce l’espressione cinese “non dirlo a lei”, della regista indo-americana Lulu Wang. Nonostante le origini non completamente cinesi della regista, la pellicola propone l’ambivalenza di chi vive diviso fra due territori lontani geograficamente, con tutte le conseguenze umane e culturali che ne derivano. Un altro prodotto culturale – perché no, transculturale. Ma impossibile non citare anche il forte impatto di Departures di Yojiro Takita del 2009 (altro premio Oscar), o di Like father like Son (2013), o Burning – L’amore brucia (2019).
Lo studio Ghibli, popolare casa di produzione giapponese, ha rivolto al mercato occidentale una forma di comunicazione con cartoni animati dal profondo eco psicologico. Un’operazione cinematografica che ha creato un ponte fra le culture preadolescenziali asiatica e occidentale, così che sul maxischermo di un cinema potessero scorrere le visioni di un mondo che, invece, non si potrebbero afferrare in un altro parallelo. Per cui in un panorama multimediale dove i concetti culturali, spesso, si perdono nella temporaneità dei new media, il cinema sa ancora promuovere lo scambio interculturale serio e accessibile a tutti. Semplicemente, come direbbe John Hammond, “al prezzo di un biglietto d’ingresso”.
Riccardo Belardinelli
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