Un Paese terribile di Keith Gessen e l’importanza di perseverare
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Andrej, per la Russia, non aveva fatto un granché. Certo, aveva letto tanti libri, insegnato letteratura russa in America per anni e nemmeno con troppe soddisfazioni, ma non era riuscito a modificare l’opinione di nessuno riguardo questo Paese. Perché per apportare un vero cambiamento, avrebbe dovuto escogitare una nuova interpretazione capace di cambiare il Paese stesso. Quel «Paese terribile», con cui nonna Seva accoglie il nipote tornato a Mosca su richiesta del fratello, dopo essersi trasferito, ancora bambino, negli Stati Uniti insieme alla famiglia.
È questo il punto da cui origina la storia di Un Paese terribile, raccontata da Keith Gessen, giornalista del New Yorker nato a Mosca nel 1975, che nel raccontare l’avventura del protagonista ci mette la stessa ironia del Patrick Dennis di Zia Mame, e la parola tagliente con cui approfondisce le falle del socialismo sovietico. Un Paese terribile: terribile perché in Russia, una volta sfarinatasi la vecchia ideologia, sullo sfondo della crisi del 2008 sembra andare tutto «troppo per il meglio». Troppo, per Andrej che non può permettersi nemmeno di regalare un maglione nuovo a sua nonna. Nemmeno una cena al ristorante, nemmeno tutti quei caffè che consuma al bar per usare la rete wi-fi. Il problema è che Mosca è così piena di tutto, eppure tanto piena di niente. Nessuna filosofia, credo politico o stralcio di letteratura che sia rimasto integro. Ma mentre le giornate in casa con la nonna – che mescola le medicine e dimentica volti e cose da fare – passano un mese dopo l’altro, in un periodo di tempo che si dilata fino alle ultime pagine del libro, Andrej affronta una crescita personale imprevista.
«Se la vita ti dà limoni, tu facci una limonata», dicono. Così, attraverso i racconti dell’anziana Seva, che ha subito le angherie del regime, che ha perso tutto perché «in questo Paese terribile non funziona più niente» e alle porte che gli vengono chiuse in faccia, il protagonista scopre un nuovo lato di sé. Quello che persevera, e che prova a trasformare le situazioni peggiori in motivi per migliorare (abbandonando l’atteggiamento disfattista che ha all’inizio del romanzo). Tanto che quella città «in cui qualunque fosse la tua destinazione, c’era sempre troppa strada da fare a piedi», gli si attacca al giaccone come un profumo di cui è quasi impossibile volersi liberare. Vi si appiccica quando gioca a hockey o agli anagrammi con Seva, come un ricordo d’infanzia custodito nella stanza sul retro, dove si trova calore anche se fuori imperversa l’inverno. L’incontro con un gruppo antigovernativo e l’amore per Julia, forniranno ad Andrej, poi, un motivo in più per provare a rimanere. E cambiare, finalmente.
Un Paese terribile è una commedia divertente e malinconica, in cui ci viene offerta l’opportunità di seguire i passi di Andrej, i suoi errori e i suoi miglioramenti. Per riuscire a rispondere, insieme a lui, alla domanda iniziale che gli porge Seva. «Questo è un Paese terribile. Perché sei tornato?».
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