Millennial: la prima generazione che sta invecchiando in rete
Sono quelli che hanno scoperto e influenzato internet, ma anche quelli che stanno inevitabilmente prendendo coscienza del proprio invecchiamento online.
Scoprire cosa fanno i più giovani è da sempre la velleità, il cruccio, l’aspirazione di chi è più grande di loro: per esprimere una forma di controllo, talvolta, e smussare gli spigoli ancora aguzzi dell’adolescenza. Ma anche una forma di emulazione, di curiosità: restare al passo coi tempi, e non perdersi nulla.
In questo senso, i millennial – ossia i nati tra il 1980 a 1996 – sono stati una generazione cruciale, gli interpreti di un passaggio: un destino che li ha chiamati a essere quel gruppo anagraficamente contemporaneo alla diffusione di massa della rete, per poi pian piano colonizzarne le piattaforme e i contenuti – come rileva anche uno studio del Pew research Center.
Se ci pensi, sono (siamo) stati i primi a sperimentare i social network: da MySpace a Friendfeed, fino all’arrivo di Facebook e Twitter – piattaforme in funzione ancora oggi malgrado crisi d’utenti, proprietà turbolente e tagli al personale. I primi a inventarsi codici e consuetudini, a convivere con un certo tipo di offerta ben preciso: i forum per le community, i photolog per le foto, i blog per i propri pensieri. Le gif. Le emoticon.
Insomma: internet, questa colossale novità, a un certo punto sembrava essere principalmente una cosa per giovani. Dei giovani, fatto salvo l’uso industriale e commerciale. Ma quelli di qualche anno fa.
Nella stampa americana da qualche tempo si parla dei millennial come della prima generazione a invecchiare in rete, e a vedersi crescere sotto i piedi una leva di nuovi giovani, portatori di nuovi linguaggi e nuove ossessioni spesso apparentemente poco comprensibili. Uno smacco, per un gruppo anagrafico abituato a considerarsi unico interprete degli universi digitali per anni, con la pretesa di conoscere tutta la rete internet esistente.
“Oggi le piattaforme social più influenti a livello culturale non sono più costruite attorno ai millennial”, spiegava Kate Lindsay su The Atlantic, citata anche in “Sei vecchio”: il libro in cui cerco di capirne un po’ di più, e di tenere uniti i lembi di questo presunto squarcio anagrafico-culturale. Una generazione che avrebbe “esercitato il suo dominio per più di un decennio sull’ecosistema online” fino all’arrivo della “TikTok era, la crepa che comincia a manifestarsi”.
È in questo gap che vanno a inserirsi i presunti motteggi dei più giovani contro i nuovi adulti, i trentenni di oggi: dalle differenze apparentemente inconciliabili su estetica e cultura, all’invenzione della cosiddetta millennial pause, l’accusa mossa da utenti della Gen Z contro quel presunto “vezzo millennial” di cominciare i video con quei due secondi di silenziosa esitazione – come se fosse, appunto, una pausa.
E benché alcuni dei content creator più seguiti – anche in Italia – abbiano in realtà ben più di 26 anni, o addirittura – seppur giovani, come King Ash – si rifacciano a youtuber e autori di qualche tempo fa, la percezione è che a un certo punto, e per la prima volta da quando conviviamo sul web, quel gruppo di persone che l’ha visto arricchirsi di contenuti stia prendendo coscienza di non coglierne alcuni aspetti. O se ne stia totalmente perdendo i nuovi fenomeni.
Arrivati al 2023, “i giovani hanno vari modi per modellare la narrazione su loro stessi” spiegava Erin Carson su Cnet un paio di anni fa. “Grazie alle piattaforme social, nessuno può fermare un diciassettenne dall’andare virale su TikTok”. Magari proprio lanciando un invettiva contro chi ha preceduto la sua generazione, utilizzando codici linguistici nuovi e generalizzando sull’intera classe dei Millennial: com’è successo a decine, centinaia di creator in giro per il mondo, che hanno animato questa sorta di scontro in campo non neutro.
Cosa fare, quindi? È necessario arrendersi, o è preferibile ignorare? Me lo sono chiesto spesso. E un po’ per curiosità personale – sono un Millennial fatto e finito – e un po’ spunto editoriale, ho provato a mettermi in ascolto. Che è forse l’unica, o almeno la migliore, cosa da fare quando chi è più giovane di noi parla, ci parla, e sta evidentemente lavorando per crearsi i suoi spazi: tendere l’orecchio, senza giudicare, né restare convinti che le reti sociali restino sempre immutabile, che si conosca tutto l’internet emerso. Anche a costo di suonare cringe, o addirittura boomer.