Le serie tv d’autore
La distinzione tra film d’arte e prodotti d’intrattenimento è un cardine della critica e, si sa, la televisione spesso ha gravitato sul secondo polo. Negli ultimi anni, però, la potenza produttiva dei colossi dello streaming ha scompaginato le carte, e spinto la qualità delle serie tv ad altezze prima impensabili, tanto da attrarre registi di cinema importanti e premiati. Quelli che un tempo si definivano Autori.
Il fenomeno non è nuovo, e ha precedenti illustri. Già nel 1980 Rainer Werner Fassbinder dirigeva Berlin Alexanderplatz, serial tv sul passato della Germania in 13 puntate e un epilogo per un totale di oltre 15 ore. Dieci anni dopo David Lynch plasmava la provincia inquietante di Twin Peaks, subito fenomeno globale, mentre poco prima, a fine anni ’80, Krzysztof Kieslowski declinava nella Polonia contemporanea i comandamenti divini nei dieci episodi del Decalogo e poco dopo, a metà anni ’90, Lars von Trier imbracciava la camera a mano del Dogma95 per dissezionare il bene e il male dall’interno di un ospedale danese in The Kingdom, cult tra horror e grottesco di cui ha annunciato una terza stagione per l’anno prossimo. Registi rigorosi, anticonvenzionali, con visioni molto personali, fieramente lontane dalla banalità del mainstream. E proprio il fatto di non piegare la propria visione al mezzo televisivo, ma al contrario innestare nel piccolo schermo uno sguardo puramente cinematografico, si potrebbe definire la caratteristica cardine delle serie tv d’autore.
Gli esempi sono tanti, tutti blasonati. Tra i più recenti c’è l’incursione in tv di Derek Cianfrance, regista americano smaccatamente indie, con la miniserie Hbo I Know This Much is True (Un volto, due destini) che quest’anno è valsa il Golden Globe a Mark Ruffalo, diviso nella doppia parte di due gemelli dal rapporto patologicamente complicato. Ma già prima dell’esplosione degli ultimissimi anni si erano provati col piccolo schermo registi osannati dalla critica e corteggiati dai grandi festival: la neozelandese Jane Campion con le due stagioni della serie crime Top of the Lake, Steven Soderbergh con il period drama The Knick, con Clive Owen chirurgo cocainomane nella New York di inizio ‘900, le sorelle Wachowski con la fantascienza telepatica di Sense8, Spike Lee che ritorna nel sottobosco artistico della Brooklyn nera del suo esordio del 1986 Lola Darling con She’s Gotta Have It. Queste ultime tutte targate Netflix, che si è accaparrata anche il talento di David Fincher: oggi reduce dalla candidatura agli Oscar per Mank, il regista ha firmato la pluripremiata House of Cards e Midhunter. E non si sono sottratti nemmeno due mostri sacri come Martin Scorsese e Woody Allen. Il primo già nel 2010 ha prodotto e diretto l’episodio pilota di Boardwalk Empire-L’impero del crimine, ambientata nell’Atlantic City malavitosa del proibizionismo, e in seguito la meno fortunata Vinyl sulla scena punk-rock della New York anni ’70, coprodotta da Mick Jagger. Sempre a New York, ma negli anni ’60, Allen ha ambientato la sua Crisis in Six Scenes, dove prevalgono i toni ironici tipici del regista.
La tendenza coinvolge anche i nostri registi di punta. Mentre è atteso l’esordio seriale di Ferzan Ozpetek che vent’anni dopo rifà Le fate ignoranti, va riconosciuto a Paolo Sorrentino un ruolo d’avanguardia in questa direzione con le folgoranti The Young Pope e The New Pope, che hanno regalato al nostro premio Oscar ottimi risultati internazionali. Ha messo d’accordo pubblico e critica anche L’amica geniale che Saverio Costanzo ha tratto dai bestseller di Elena Ferrante: il regista ha ceduto la direzione per due episodi della seconda stagione ad Alice Rohrwacher, nome di punta del nostro cinema più autoriale, mentre per la terza stagione, ora in lavorazione, il timone è passato a Daniele Luchetti. Piega il respiro lungo della serialità alla sua modalità di narrazione, fatta di silenzi e sguardi, accellerazioni musicali e introversioni, anche Luca Guadagnino con la recente e ottima We Are Who We Are, girata in inglese,sull’amicizia di due adolescenti americani nella base americana di Chioggia. E anche il passaggio dietro la macchina da presa dello scrittore Niccolò Ammaniti con la fantascienza distopica di Anna, appena rilasciata da Sky, offre uno sguardo inedito e molto delicato sui giovanissimi. Perché la tv si può fare con stile, senza rinunciare alla propria poetica. Anzi, perfino esasperandola, e richiedendo allo spettatore attenzione e pazienza che saranno ripagate. Esempio paradigmatico in questo senso è Too Old To Die Young (2019), esperimento seriale dai tempi dilatati fino allo sfinimento del danese Nicolas Winding Refn, autore di cult crudeli ed esteticamente perfetti come Drive e The Neon Demon.