Lazarus, il testamento di David Bowie abbatte le barriere del nostro teatro
Il regista Valter Malosti ci racconta come l'opera rock con protagonista Manuel Agnelli segni il trionfo della contaminazione tra le arti, ancora troppo poco praticata nei nostri teatri, e conquisti la scena dei teatri stabili più blasonati. Un'eccezione o il segno di un cambiamento?
La firma di David Bowie basterebbe per renderla un’opera straordinaria. Lazarus è, insieme all’ultimo album Blackstar, il testamento artistico del Duca Bianco che ne seguì la prima teatrale a Broadway il 12 dicembre 2015 in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica, nemmeno un mese prima di morire. Ma l’opera rock non è solo l’addio di Bowie al mondo. È anche un oggetto teatrale unico, che è stato capace se non di scardinare, perlomeno di dare uno scossone al sistema produttivo granitico e stantio del nostro teatro. Con Manuel Agnelli nel ruolo dell’alieno Newton, l’infelice migrante interstellare protagonista dell’Uomo che cadde sulla terra ancora bloccato sul nostro pianeta, lo spettacolo – la tournée è in arrivo il 23 maggio al Piccolo Teatro di Milano, per poi proseguire fino al 18 giugno tra Ferrara e Torino – è prodotto e messo in scena dai maggiori teatri stabili della Penisola. Un unicum per un musical, e forse il segno di un cambiamento. Lo abbiamo chiesto al regista, Valter Malosti.
Malosti, lo spettacolo sta avendo un grande successo, e anche la critica è favorevole. Un’eccezione in una scena teatrale settoriale come quella italiana?
Da sempre lavoro sulla contaminazione tra le arti, è la mia “specialità”. E questo per chi conosce il mio lavoro è un mio spettacolo, come quelli che faccio nei teatri “seri”, non gli manca niente. Però in Italia esiste una sorta di labirinto in cui le varie strade non si intersecano mai, le varie arti sono un po’ a compartimenti stagni. In tutta Europa invece non si pongono il minimo problema, se lei vede le stagioni dei grandi teatri ci sono la danza, le arti visive, tutto si intreccia, ormai le creazioni sono un misto di tutte le arti: senza stare a scomodare il teatro totale dell’800, è una cosa normale. Lazarus è un’opera rock, ma lo abbiamo costruito proprio così, con la contaminazione tra le arti.
Ci spieghi meglio.
Ci sono cantanti che recitano, su tutti Manuel Agnelli e Casadilego, questa ragazzina di vent’anni che ha vinto X Factor, e attori che cantano, e danzatori che recitano e cantano. C’è la videoarte, il teatro, e ci sono i musicisti dal vivo, un’altra caratteristica piuttosto rara in questo tipo di spettacoli in Italia. Di solito la musica è registrata, invece qui c’è un impatto sonoro e anche visivo importante: abbiamo voluto che stessero tutti quanti insieme in scena. È una scena importante, ma allo stesso tempo informale, non c’è una divisione vera e propria tra i vari elementi che la compongono. Assomiglia molto alle creazioni di Bowie, che sono sofisticate e allo stesso tempo popolari.
Musical di queste dimensioni, con nomi così noti, di solito si fanno nei palazzetti. Lei lo ha pensato per i teatri stabili, o è stato un caso?
Tutto è iniziato sette anni fa con una scommessa un po’ folle. Ero ancora un indipendente, ho preso i diritti, ma sarebbe stato complicato farlo. Poi la mia storia professionale si è arricchita della direzione di Ert-Emilia Romagna Teatro che indubbiamente ha facilitato il corso delle cose. Però anche gli eredi di Bowie, alla firma del contratto, hanno tenuto a dirci che lui avrebbe preferito che la sua creazione girasse nei teatri “tradizionali”. Anche perché la componente di scrittura è di tutto rispetto. Il testo è scritto a quattro mani da Bowie con il drammaturgo irlandese Enda Walsh.
Un autore rilevante, che lei ha già affrontato in passato con Bedbound, nel 2001, e con Disco Pigs, nel 2005.
Che erano due spettacoli del giro sperimentale. Molto fortunati, abbiamo vinto diversi premi. Quella di Walsh in Lazarus è una scrittura importante, anche consistente per numero di righe, molto più simile a un’opera lirica contemporanea che a un musical. I suoi sono dei collegamenti visionari, come fossero dei recitativi, e poi sia per Bowie che per Walsh la cosa importante è la grande emozione che deriva dalla musica: canzoni come romanze, arie della lirica. Insomma, Lazarus non è un musical, è un’opera rock. È molto diverso come atmosfera e tipo d’impianto. E tra l’altro parla di argomenti complicati.
Ci racconti.
È la descrizione della mente in frantumi di un uomo che sta sulla soglia, e non si capisce su che soglia sia: tra la vita e la morte, o altre soglie della coscienza legate forse all’uso di droghe. C’è l’ombra della morte, Bowie è un artista sensibile e ha messo dentro le sue esperienze dell’ultimo periodo, ma nonostante questo è uno spettacolo di grandissima vitalità.
Un esperimento come questo sta portando a una commistione di pubblico? Potrebbe essere un fronte di sfondamento per conquistare al teatro tradizionale un pubblico diverso?
Direi proprio di sì. Tra l’altro Bowie mette insieme generazioni diverse. La cosa meravigliosa che sta accadendo è che molte persone entrano a teatro e alzano la testa per vedere un luogo che non hanno mai visto. Accostarsi al teatro per la prima volta con una cosa così energetica, passionale e piena di tanti artisti di talento è importante. Perché non basta soltanto presentare una cosa con un appeal. Il primo incontro con il teatro deve essere un incontro forte.
Il teatro musicale nei teatri tradizionali entra di rado. Mi vengono in mente pochi nomi: Brecht, Bob Wilson.
Ha citato due artisti che amo moltissimo. Wilson ho passato la giovinezza a studiarlo, e Brecht è un esempio che faccio spesso quando mi dicono: “Hai preso Manuel Agnelli”. E allora? Anche Strehler ha preso Milva e nessuno gli ha detto niente. Sono artisti. Manuel ha un grandissimo talento. Musicale, ovviamente, ma non tutti sanno che finezza interpretativa abbia, anche come attore. Tra l’altro ha la stessa tessitura vocale di Bowie, il che è piuttosto straordinario. Prima di decidere per lui ci ho pensato molto. Per la parte è necessario un cantante che fa l’attore, perché è musicalmente complessa. E Manuel ha questo aspetto tecnico notevolissimo, un po’ oscurato dal suo essere icona rock: ha studiato pianoforte per anni, è un musicista vero. L’altra cosa interessante per il personaggio è la ferita.
Che cosa intende?
Nonostante il suo essere ingombrante in scena, perché non è che possiamo cancellare Manuel Agnelli con la scolorina, lui si fa medium, si fa trasparente per veicolare questa musica e le emozioni di questo personaggio, e allo stesso tempo non nasconde le sue ferite personali. È un misto di verità e finzione. Che è poi l’essenza di Bowie: nel massimo della artificialità c’è il massimo della verità.