L’avventuriero con la frusta. Il ritorno di Indiana Jones
L’arrivo del quinto e ultimo episodio della saga di Indiana Jones permette non solo di ricordare con affetto uno degli eroi più longevi del cinema popolare, ma anche di ragionare su com’è cambiato nel tempo il nostro senso dell’avventura.
Un archeologo molto speciale
Qualcuno dice che Indiana Jones sotto sotto è Steven Spielberg. Così come l’eroe interpretato da Harrison Ford alterna lezioni in aule universitarie e avventure ai limiti estremi del mondo conosciuto, anche Spielberg si sente un “cattedratico” molto erudito della Settima Arte che ama fare scorribande nell’immaginario fantastico di massa.
In verità, il personaggio nato nel 1981 con I predatori dell’arca perduta è farina del sacco di George Lucas che – in un periodo per lui fertilissimo e quasi contemporaneamente alla creazione del mondo tuttora esistente di Star Wars – omaggiò la sua amata letteratura d’avventura inventando Indy, un mix tra Lawrence d’Arabia, Tarzan e un cowboy. Spielberg, molto amico di Lucas, se ne innamorò e impresse il suo tocco inconfondibile all’esotico luna park hollywoodiano che ha poi conquistato le folle, con spregio assoluto della verosimiglianza storico-geografica, ma in compenso con un amore viscerale per Kipling, Verne, Conrad, Stevenson, i fumetti e i film degli anni Quaranta come Le miniere di Re Salomone.
Fu così che l’ironia e l’umanità di Indiana (e di Ford) divennero storia, con racconti rocamboleschi talvolta ibridati con l’occulto (Indiana Jones e il tempio maledetto), a volte con la guerra e lo spionaggio (Indiana Jones e l’ultima Crociata), altre volte con la fantascienza (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo).
Il tempo che passa
Uno dei tratti che più vengono apprezzati anche nel nuovo Indiana Jones e il quadrante del destino (per la prima volta Spielberg è solo produttore, mentre in cabina di regia siede l’esperto James Mangold) è la longevità del protagonista, che sfida il tempo e l’invecchiamento, o meglio ne fa degli alleati. È possibile un Indiana Jones pensionato e stanco? Ovviamente no, e infatti la nuova avventura ci porta a spasso nel tempo, permettendo a Harrison Ford (81 anni) di tirare un po’ il fiato e dialogare simbolicamente con un se stesso più giovane durante imprese che affondano le radici nel passato. Ma anche prima di questo revival, la saga ideata da Lucas era rispettosa dei divi d’antan: basti ricordare il ruolo di padre e mentore assegnato a Sean Connery nel terzo episodio, già segnato da una certa nostalgia verso l’ex James Bond (in fondo anche lui frutto di una cultura popolare nata molto prima, negli anni Sessanta).
L’avventura e la sua (r)esistenza
Ma il discorso va allargato all’intero genere avventuroso. In letteratura, la nozione di avventura appartiene a periodi storici dove ancora esistevano il mistero, l’ignoto, le terre inesplorate, l’esotismo, il piacere di viaggiare con la fantasia se non lo si poteva fare davvero. Molto si è discusso del fatto che il turismo di massa e la globalizzazione hanno sottratto magia al mondo e sostanzialmente ucciso l’avventura in quanto tale. Non c’è più spazio per Sinbad, Sandokan, il Corsaro Nero, Robinson Crusoe, pirati, spadaccini, conquistatori? La storia sembra proprio dirci questo. Eppure Indiana Jones nasce negli anni Ottanta, quando questo processo di abbattimento dell’immaginazione era già ampiamente in atto. Ed è proprio nella sua capacità di rilanciare quello stupore, quell’incanto che si nasconde il fascino della serie: ambientando i film tra gli anni ’30 e gli anni ’60, viaggiando tra l’Egitto e l’Egeo, tra l’India e l’Europa, scovando il sacro Graal e l’Eldorado, combattendo (sempre) i nazisti come male supremo e metafisico, Spielberg e i suoi sodali hanno compiuto il miracolo di ridare cittadinanza a un genere quasi defunto. Miracoli dell’intrattenimento quando è sincero.