L'amicizia come antidoto alla solitudine: leggere «L'amica geniale»
Il vero amico è come un altro sé stesso. Cicerone nel De amicitia lo teorizza con la naturalezza del genio che esprime un concetto semplice, quasi lapalissiano. Ma mai così vero. Ed è singolare come in un’era in cui l’individualismo impera e la tecnologia ci esilia a essere sempre un po’ più soli, L’amica geniale, il romanzo ora anche fortunatissima fiction Rai, piombi nelle nostre vite con la prepotenza dell’incanto. Arriva, ti travolge e poi se ne va. Ma ti cambia e ti fa ricominciare a pensare a quanto contino i rapporti umani, quelli veri, nelle nostre vite.
Un amico è una protezione potente e, come dice il libro ecclesiastico della Bibbia, chi ha la fortuna di averlo, trova un tesoro. L’amicizia ha un potere devastante: ci libera dalla solitudine dell’anima che l’uomo è destinato a vivere. Bisogna fare una distinzione: gli anglosassoni hanno distinto in maniera saggia i due aspetti contraddittori della solitudine. Così ha creato la parola “solitude” per esprimere la scelta di essere soli. E ha dipinto la parola “loneliness” per esprimere una solitudine sofferta e non scelta. In questo, la lingua italiana è colpevole di essere troppo poco scrupolosa: esprime i due concetti diversi con una sola parola, “solitudine”.
Lila e Lenù sono amiche di sangue, condividono la vita in un rione poverissimo di Napoli in cui proliferano i germi della camorra. Il loro è un rapporto simbiotico: se una s’imbellisce l’altra diventa brutta, se una è felice l’altra è inghiottita dalla tristezza. Fa da collante alla loro amicizia la sete di imparare, la cultura che diventa una diga contro il fiume fangoso e irruente del dialetto, del rione, della miseria. E in un ambiente che ne è quasi totalmente estraneo, l’amore per lo studio apre un mondo di possibilità. Le giovani hanno un’immensa fortuna: la maestra Olivero che crede in loro e che individua la genialità di una e la caparbietà dell’altra. Sarà solo grazie all’insegnante che Elena si affrancherà da una vita già scritta. La Oliviero dona alle due bambine, poi adolescenti, un sogno: contare solo sulle proprie forze. E proietta nell’immaginario delle giovani l’indipendenza. Essere davvero indipendenti significa costruirsi, creare un proprio sapere, una vita solo nostra. L’indipendenza che è la mia forza – diceva Pier Paolo Pasolini – implica la solitudine che è la mia debolezza. Forse allora è proprio vero: bisogna imparare a vivere bene da soli per poi saper donare sé stessi agli altri. Per le donne è sempre stato più difficile realizzarsi, un po’ per convenzione sociale un po’ per disparità di genere. Vedere le due amiche lottare per trovare la propria strada ci indica una via che a volte dimentichiamo. È quella del coraggio.
Elena e Lila non si lasciano schiacciare dal contesto in cui vivono, dalle famiglie che le crescono. Diventano due donne diverse che ci dimostrano la vita da due punti di vista differenti. La loro amicizia, stretta, intima, piena di non detti, contraddizioni, incomprensioni. Il loro rapporto è contrastato, non sono perfette, entrambe si feriscono a vicenda, a volte a causa di un ragazzo, altre della gelosia, altre ancora per paura. Ma ogni volta sanno dove devono tornare. Spesso siamo in balia di noi stessi e dei nostri fantasmi, è proprio in quei momenti che abbiamo bisogno di qualcuno che ci salvi, che ci faccia vedere più chiaramente le cose. È anche per questo che gli amici sono preziosi. E ci permettono di non ‘smarginarci’ come accade in segreto nell’adolescenza a Lila. Cos’è la smarginatura? L’autrice (o l’autore) enigmatica dell’amica geniale che si cela sotto il nome di Elena Ferrante ce lo descrive come un senso di esserci e non esserci, forse la sensazione che, in quel rione, vivere con tutte sé stesse significa soffrire il male di vivere che può essere curato solo con la libertà.