La silenziosa Pietà di Giovanni Bellini
La pandemia ha inevitabilmente mostrato alle persone quanto possano mancare gesti apparentemente “semplici” come attraversare un museo, ammirare un quadro o una scultura e godere della loro bellezza. Tornare a farlo significa riconquistare un po’ di normalità e riappropriarsi in qualche modo della nostra vita prima della pandemia. In questi ultimi mesi la tecnologia ci ha aiutato a colmare questo vuoto culturale. Ma non basta, perché ci siamo accorti quanto ancora ci manca l’arte “dal vero”, perché l’arte non ti regala solo appagamento ma soprattutto leggerezza e un’esperienza immersiva, quasi mistica, nelle sue opere.
Ecco perché ho scelto di raccontarvi la Pietà di Giovanni Bellini alla quale ci si avvicina in religioso silenzio, con passi leggeri e ammirato rispetto. La visione terrestre della gravosità delle carni post mortem del Cristo e la celestialità della passione invocano al raccoglimento e alla preghiera. Dal buio della notte affiora un corpo vero e plastico, sorretto da quattro angeli che amorevolmente accudiscono il Cristo ormai esanime che sta per essere disteso sulla pietra rossa dell’unzione. L’abbandono delle carni del Redentore è composto ma evidente, con le mani in bilico e il capo reclinato, è lo strazio provocato dalle ferite della Passione. Mentre i volti degli angioletti seppur impegnati nel loro compito hanno la sembianza malinconica e la consapevolezza della Resurrezione.
E’ questa la potenza della pittura di un artista fra i più grandi dell’Europa moderna. Giovanni Bellini, nato a Venezia nel 1430 da una famiglia di pittori, si è ben presto smarcato dagli stilemi gotico-bizantini che permeavano la Laguna, per diventare pittore di grande potenza cromatica e aprire la strada alla pittura tonale, tipicamente veneta, che avrebbe poi trovato in Giorgione il suo grande interprete.
A Rimini Giovanni Bellini ha lasciato il Cristo morto sorretto da quattro angeli, una tempera e olio su tavola dipinta intorno agli anni ’70 del 1400 e oggi conservata al Museo della Città. La committenza probabilmente è da attribuirsi al signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta e la destinazione si suppone fosse per la cappella dedicata agli Antenati e alle Sibille nel Tempio Malatestiano, intitolata però a “li martori” ovvero alle sofferenze di Cristo. Fra tutte le Pietà dipinte dal Bellini qui avviene il “quasi attuato rinnovamento” come scrive Roberto Longhi, che continua “Ecco tutto il quadro occupato di alterne tonalità coloristiche chiare e scure: ecco i corpi divenuti di una sostanza più viva e respirante, come zuccherina, dove l’ombra si deposita morvidissima; ecco il modellato arrotondarsi come nelle testine angeliche (…) ecco i corpi soffondersi d’ambra e le vesti formarsi di rosa”.
Qui è il tripudio del colore, che senza nulla togliere alla scena della Passione, dichiara lo smorzarsi della tensione lineare e disegnativa a favore di una maggiore morbidezza nei passaggi cromatici. Si guardino la veste dell’angelo a sinistra, di tono bruno che via via sfuma verso destra fino ad un rosa luminoso nella veste dell’angelo opposto.
Composizione, luce e colore hanno senso solo quando ti trovi davanti al capolavoro. Da quest’opera apprendiamo un grande insegnamento: la capacità che ha l’opera di parlare e coinvolgere l’uomo di ieri e di oggi. L’opera è dotata di linguaggio universale che travalica le lingue, le culture e le religioni e dialoga col mondo circostante di qualsiasi epoca.
La grazia vivissima di queste figure dove gli angeli paiono danzare intorno al corpo perfetto del Cristo tale da sembrare una statua classica. Tutti i gesti sembrano ritmati da un sottofondo musicale: lo sono lo sfioramento delicato del ginocchio dell’angelo a sinistra con il braccio destro del Redentore, l’angelo al centro di profilo con la sua mano carezzevole sulla spalla sinistra del Cristo e il dispiegamento delle ali multicolore che ricordano i putti dipinti qualche anno prima dal cognato Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi di Mantova.
Dio si è incarnato è diventato uomo come noi e come tale tangibile e pesante, buca le tenebre del lutto dello sfondo e si rivela in tutta la sua luce vivissima, allegoria dell’alba del nuovo giorno.
Chi guarda l’opera si sente pervaso da questa aurea di luce e avverte il Redentore venire verso di lui, movimento suggerito dalle gambe in parte tagliate ma che illusionisticamente paiono proseguire idealmente nello spazio fisico occupato da chi osserva.