La Biennale Teatro dei ricci/forte, dalla provocazione alla consacrazione
Quando approdarono sulla scena, nel 2006, subito si capì che nulla sarebbe stato più lo stesso. Stefano Ricci e Gianni Forte, in arte ricci/forte a lettere volutamente minuscole, si sono abbattuti sulle convenzioni teatrali, quelle stantie o quelle più sottili e raffinate della ricerca, come un fiume in piena. Uno tsunami capace di mescolare nello stesso calderone icone pop come Paperino e la tragicità di Eschilo, carrelli della spesa da supermarket di periferia e corpi nudi e sofferenti in tacchi a spillo, gioiosi baci omosessuali e cronache terribili di bullismo. Con risultati sempre struggenti, che superano l’eccesso esibito con la verità disarmante delle ferite del cuore: Troia’s Discount, Imitationofdeath, Pinter’s Anatomy, Macadamia Nutt Brittle, solo per citare i “cult”.
Guastastatori per nascita e istinto, i due artisti che dicono di ispirarsi, per i loro turbinii teatrali, a quelli delle loro vite, dopo quindici anni di irresistibile ascesa dai teatrini più off ai palchi blasonati, e di pieni riconoscimenti soprattutto all’estero, alla fatidica soglia dei cinquant’anni conquistano la direzione artistica della Biennale Teatro. Dalla provocazione alla consacrazione, si potrebbe sintetizzare in rima. Per un quadriennio che immaginiamo scoppiettante, saranno alla guida del massimo festival istituzionale nostrano (ricevono il testimone da Antonio Latella), e per la programmazione annunciano di volersi ispirare ogni anno a un colore.
Per la prima stagione hanno scelto il blu, declinato in un cartellone di undici spettacoli, in vari spazi di Venezia fino all’11 luglio. Con sguardo inevitabilmente rivolto alla pandemia che ci ha sconvolti: «Un incantesimo malefico, come nelle fiabe più crudeli dei fratelli Grimm – sottolineano –, ci ha congelati tutti e portati a fare i conti con un ribaltamento totale della nostra storia di esseri umani. In seguito ai vari lockdown, all’emergenza economica e sanitaria che ci fa percepire noi stessi e gli altri in costante diffidenza, costringendoci a coprirci il viso e rimanere distanziati, anche noi lavoratori del mondo dello spettacolo abbiamo vissuto e continuiamo a vivere una pericolosa situazione di stallo. Un festival non può avere altro oggetto che mettere in discussione le situazioni contingenti che si stanno attraversando. Non siamo una roccia in mezzo all’oceano, “Le monde, c’est toi!”, gridava Jean-Paul Sartre. Oggi, più che mai, avvertiamo la necessità impellente di far luce sul baratro in cui siamo sprofondati».
Per farlo ricci/forte ripartono dal Teatro, e dal Blu, il colore del sogno: «Non siamo soli. Dobbiamo farcela. Riprendiamo dalle origini, dai Maestri, dal Blu, per stabilire una cordata verso l’Alba che ci sta chiamando. Perché già in tale ascolto collettivo, in tale rispetto dell’altro, c’è, in nuce, l’essenza di una nuova dignità espressiva che spazza via l’afasia solipsistica dell’Era prepandemica». Farcela, insieme, vuol dire dare voce a un teatro che non ha confini, «un crossing views – proseguono – dove gli spettacoli sconfineranno oltre le linee di demarcazione, presentandoci opere d’interferenza con una eterogeneità di linguaggi, tecniche, codici e mezzi espressivi in dialogo con le urgenze del presente. Non un solo teatro ma molti teatri possibili. Plurali come l’universo perché il pensiero libero non conosce né dogane né frontiere».
Così, il Rinascimento culturale secondo ricci/forte porta nomi eccellenti della scena internazionale, spesso da scoprire. “Maestro” e nuovo Leone d’oro è il polacco Krzysztof Warlikowski, che nel suo teatro sperimentale usa riferimenti cinematografici e fa un utilizzo originale dei video, e si è imposto per il suo linguaggio innovativo negli ultimi vent’anni. Talento in ascesa, e novità per l’Italia, è l’inglese Kae Tempest, a cui verrà consegnato il Leone d’argento: 36 anni, alle spalle un vissuto complicato che l’ha portato a rifiutare la sua identità femminile, mescola poesia, musica e teatro in The Book Of Traps and Lessons, il suo quarto disco che presenterà il 10 luglio al Teatro Goldoni nella forma dei suoi apprezzati “spoken word”, ossia reading senza musica. Da vedere l’ungherese Kornél Mundruczó che ambienta su due camion posteggiati nel porto di Rotterdam il suo crudo affresco contemporaneo Hard to be a God, e il nuovo lavoro degli Agrupación Señor Serrano, dirompente gruppo catalano già Leone d’argento nel 2015, che in The Mountain mescolano Orson Welles, la conquista dell’Everest e Putin. Da non perdere Thomas Ostermeier che con lo spettacolo Qui a tue mon pére affida il testo autobiografico all’interpretazione dello stesso autore, il giovanissimo scrittore francese Edouard Louis, e tra gli italiani Danio Manfredini e Roberto Latini.