La vita dopo TikTok
Cosa succede se tutte le piattaforme social cominciano a somigliare al social cinese? E come ci siamo arrivati?
Immagina: sei seduto al tavolo di una pizzeria e sta arrivando la tua pizza. Sposti bicchieri e posate, fai spazio al piatto che ti viene lasciato sotto i tuoi occhi, fumante e pronto per essere consumato.
Come animata da un misterioso automatismo, però, la tua mano destra si muove involontariamente verso il telefono dentro la tasca dei pantaloni: e se non farai in tempo ad accorgerti davvero di quello che stai facendo, avrai certamente già sbloccato il tuo smartphone e inquadrato la pizza per scattare una foto.
Di quell’immagine, forse, te ne farai poco. Avrai però sentito l’impellente bisogno di immortalarla, per una futura, plausibile, prossima condivisione sui social.
È quello che ci succede ogni giorno, in migliaia: come se, senza prenderne pienamente coscienza, fossimo entrati in un’epoca segnata da performance sociali costanti, da condividere. A prescindere da chi sarà l’effettivo destinatario della foto.
E non può stupire se il modo in cui ci approcciamo ai social, oggi, appare tenacemente performativo: ormai da qualche anno le piattaforme digitali, quelle dove trascorriamo buona parte delle nostre giornate, sono passate dall’essere delle reti di relazioni con gli altri – in cui scegliamo amici e “Mi piace”, follower e following – a strutture sulle quale intrattenere e intrattenersi, indipendentemente dal legame con gli utenti.
Una girandola di video pensati per soddisfare la nostra voglia di essere divertiti, guidata da una raffinata macchina – quella degli algoritmi – in grado di intuire cosa davvero ci interessa. In poche parole: il passaggio dai social di prima generazione a TikTok, il gamechanger in grado di adattarsi al modo nel quale vogliamo internet e di influenzare persino i concorrenti.
E così, se l’app cinese è stata in grado di intercettare questa urgenza — sia da utenti che da creatori di contenuti — negli ultimi tempi anche le altre principali piattaforme sociali hanno cominciato ad adeguarsi, se non a prendere chiara, quasi spudorata ispirazione, attraverso l’offerta personalizzata che troviamo nelle loro home.
Lo ha fatto prima Instagram attraverso i suoi Reel, una riformulazione della sua piattaforma video ripensata e rimasticata per apparire forse più vicino al concorrente: clip della durata di massimo novanta secondi, che mostrano un’icona col nome dell’autore in overlay, proposti in un feed a parte che ha tutte le carte in regola per somigliare alla scheda “For you” di TikTok — dalla user experience al sistema di suggerimento dei video.
Ci ha provato poi YouTube, che attraverso i suoi Shorts ha voluto restituire dignità ai video in formato verticale in un’offerta in genere quasi esclusivamente basata sui filmati in orizzontale: clip da un minuto e dai contenuti molto più simili agli altri social che alla proposta tipica della stessa piattaforma, frequentemente in grado di finire nelle classifiche dei trending content. Infine, ci ha provato perfino il nuovo Twitter amministrato da Elon Musk, infilando una scheda “Per te”, che ci mostra ciò che potrebbe interessarci, prima della classica home abitata dai contenuti dei profili che già seguiamo, e delle liste personalizzate.
“Sei in fila al supermercato, quindi dai un’occhiata al telefono. Spegni il cervello, il tuo pollice prende il sopravvento”, spiega John Hermann sul New York Magazine immaginando uno scenario plausibile, quasi tipico delle nostre giornate. Arrivano i video – continua: un uomo fa una magia davanti a un babbuino, che scoppia a ridere. “Il video ricomincia. Il babbuino è confuso, come te. Chi ha fatto questo video? Nessuno che tu conosca. Perché lo guardi? Perché ti è capitato davanti”.
In “Why Every App Now Feels Like TikTok, But Worse”, Herrman analizza con tono analitico eppure dissacrante com’è cambiata la nostra quotidianità attraverso l’uso di queste piattaforme. “Alla fine scopri che sei su Instagram, ma saresti potuto essere ovunque. È normale, oggi che tutte le social app cercano di sembrare TikTok” spiega il giornalista, facendo da eco ad Alex Kantrowiz che su Slate parla di “contenuti digitali tanto simili tra loro che a volte ci si dimentica quale sia la app sulla quale li si guardi”.
È come se i social basati su contenuti che abbiano una finalità – editoriale, di marketing, relazionale – stessero pian piano abdicando alla propria missione, accodandosi a un trend che ci vuole intrattenuti e pronti a intrattenere: quel passaggio verso un internet “one to many” di cui parla Shirin Ghaffarin su Vox, in un pezzo in cui investiga brillantemente sull’ascesa dei messaggi vocali, e in un certo senso della nostra voglia di auto-rappresentarci sotto forma di performance persino nelle nostre comunicazioni private.
In buona sostanza, è difficile immaginarsi quali possano essere i paradigmi social del futuro, specie in un settore in cui ogni nuova e rilevante innovazione sembra arrivare per restare. Di certo, a oggi, TikTok pare “aver mostrato all’industria un nuovo corso”, conclude Hermann. “O semplicemente, forse ha visto il futuro prima degli altri costringendoli a fare altrettanto”: un futuro dove solleticare la voglia d’ognuno di farsi intrattenere, e soprattutto di intrattenere gli altri, è al centro di tutto.